La Place d’une autre è un libero adattamento del romanzo The New Magdalen di Wilkie Collins. Cosa l’ha attirata in primo luogo in questo libro?
Il piacere di leggere una storia costruita sulla suspense e la sensibilità dei personaggi. La loro complessità mi ha sedotta, così come la profondità della sfida.
Il film ruota attorno al tema dell’identità. Identità grezze, rubate, ma anche identità false che possono diventare vere. In fondo, un’identità è essa stessa una narrazione?
Prima di tutto, l’identità è quello che raccontiamo a noi stessi, e “l’apparenza è sostanza”. È anche quello che proclamiamo e rivendichiamo con forza. Mentire sulla propria identità credo sia fonte e prova di sofferenza. Oggi il mondo ci incoraggia a saper parlare di chi siamo, a sviluppare la narrazione della nostra storia o della nostra identità. In questo modo ci iscriviamo in una logica di comunicazione che rimane in superficie. È più interessante la questione dell’essere.
Come tanti film che si svolgono nel passato (la storia è ambientata nel 1914), La Place d’une autre non manca di interrogare anche il nostro presente. Quali sono gli elementi più significativi da questo punto di vista?
La storia si svolge cent’anni fa, che sono al contempo pochi e molti. L’usurpazione dell’identità era considerata all’epoca più grave, ma è un tema anche oggi: succede ogni giorno, attraverso gli strumenti informatici e virtuali tipici della nostra epoca. Quello che conta nel film non è quanto sia abile l’eroina, ma il problema della parola data a una persona che ha fiducia in lei. Anche la questione dello status sociale, dello sguardo sull’altro legato alle origini, si è evoluta, ma è lungi dall’essere scomparsa.
Uno degli aspetti più interessanti dell’opera è il fatto che si tratta di un film in costume in cui i costumi sembrano legati più a una condizione psicologico-sociale che a una condizione storica. È una lettura corretta?
I costumi sono un luogo di espressione cinematografica. La costumista, Agnès Noden, era perfettamente allineata con me su questo punto. Un film non è un archivio, né un dossier o una testimonianza storica, ma una rappresentazione. I costumi erano per noi una dimensione dell’espressione del personaggio. Giocare con le forme, i colori, i materiali, voleva dire mostrare un po’ dello stato interiore dei personaggi. È stato tutto il frutto di una ricerca storica e sociale molto dettagliata di Agnès Noden e della sua squadra.
Com’è arrivata alla scelta di Lyna Khoudri per il personaggio principale, oltre che di Sabine Azéma?
Lyna Khoudri mi ha sconvolta in Non conosci Papicha di Mounia Meddour. L’ho scelta per questo e per il suo viso ancora velato di fanciullezza. Esprime molto bene un senso di segreto. Sabine Azéma, che venero da sempre, garantisce al suo personaggio molto spirito, ma anche una dose inattesa di brillantezza, fascino e vivacità.
Lorenzo Buccella