Ha scoperto il Festival da ragazzo, lo ha commentato da giovane critico e raccontato reinventando con Olivier Père le pagine del LocarnoDaily. Poi ci ha scritto un libro, anzi due. Per il secondo, Locarno On / Locarno Off, uscito in queste settimane per Edizioni Casagrande, ha collezionato e cucito tra loro aneddoti sparsi lungo 75 anni di storia. Una storia che Lorenzo Buccella, giornalista della RSI (per cui ha appena realizzato Locarno Confidential), conosce come pochi altri. E non potendola raccontare tutta, quel che si può provare a rintracciare, setacciandola, è il segreto che l’ha resa così lunga. «Locarno è il Festival della vicinanza, uno dei suoi ingredienti fondamentali. E a dimostrarlo sono i film e i suoi ospiti, che hanno fatto la storia del cinema ma non vengono a esibirla, bensì a raccontarla. Non è un caso, per esempio, se le conversazioni con Werner Herzog o con Michael Cimino sono diventate dei fiumi in piena, ben oltre il tempo stabilito. È successo perché lo hanno voluto loro, perché hanno percepito un incontro diretto con chi era lì, per loro e con loro. La vocazione di Locarno ad assottigliare la distanza tra schermo e spettatore è nata subito, l’idea stessa di cinema all’aperto racconta un’indole ben precisa: quella di essere un momento di condivisione in cui ci si possa incontrare. Prima il Grand Hotel, poi Piazza Grande».
Di nuovo, il Festival della vicinanza.
«Locarno riesce a creare una geografia unica, che altrove non esiste, in cui il Festival coincide e convive con la città. Solo qui trovi quel flusso continuo di un “cinema Piazza”, in cui vive tutta la città; in cui il confine tra chi costruisce e chi popola il Festival è quasi invisibile. Ed è in questa unicità che si sono fatte scelte storicamente anticipatrici, quando si è cercato un altrove cinematografico, aprendo con coraggio ai Paesi dell’Est nell’epoca della guerra fredda, guardando all’estremo Oriente o al cinema africano, o iraniano. E quando l’altrove si è saturato la curiosità si è spostata su altri fronti, come il formato per esempio, facendo di Locarno il primo Festival con una sezione dedicata ai video, alle nuove tecnologie. Salvo poi abbandonarla, di nuovo per primo, quando non aveva più senso dedicargli uno spazio specifico perché ormai il digitale era ovunque. E così è stato anche nei momenti di crisi, che per Locarno sono sempre state un rimbalzo evolutivo. Borges diceva che la tradizione è fatta di rivoluzioni; niente di più vero a Locarno».
Il Festival ha dovuto sempre cercare una sua identità trovandola nell’altro, negli altri immaginari e negli altri territori?
«Ma senza scordare il dialogo continuo con il passato: Locarno ha inventato la Retrospettiva, che poi chiunque ha ripreso. In un certo senso sì, Locarno è sempre stato costretto alla ricerca, ad esempio delle opere prime e seconde. E anche di questo ne ha fatto una sua fortuna, iniziando quell’indagine nel momento in cui è esplosa la nuova generazione di cineasti: gli anni ’60 di Raoul Ruiz, Marco Bellocchio, Miloš Forman...».
Una ricerca perpetua attorno al cinema.
«Il cinema prima di tutto, per contenuto e dinamica. L’idea stessa di Piazza Grande lo racconta: non è soltanto vedere un film, è vederlo in 8’000. È un rito collettivo, cambia la percezione, lo muta in un’avventura in cui addirittura la pioggia diventa un elemento leggendario; Locarno ha creato la figura dello spettatore anfibio. Ricordate le immagini della presidentessa della Confederazione Ruth Dreifuss rimasta a guardare un film sotto l’acqua? O Harrison Ford, che invece di guardare il suo Cowboys & Aliens sullo schermo fissava il pubblico che nonostante il diluvio rimaneva lì. Ripeteva, incredulo, “Unbelievable!”».
Quindi anche il pubblico, a Locarno, è altro?
«A Locarno il pubblico, proprio perché coincide con la gente, e non solo con i cinefili, lo devi crescere, coltivare. Così è stato nel ’68 con Cinema e Gioventù, così è oggi con Locarno Kids e le Academy, ma così era anche negli anni ’50, quando Vinicio Beretta diceva allo staff di lasciare pure che i ragazzi si arrampicassero sugli alberi attorno al Grand Hotel per sbirciare le proiezioni a gratis. Quei ragazzi, i famosi “tarzan”, erano il pubblico del futuro».
Per Lorenzo Buccella cos’è il Locarno Film Festival?
«Un cannocchiale per vedere il mondo. Da giovane ticinese pensavo che la grande vita culturale fosse in giro, altrove; poi, ad agosto, scoprivo che il mondo veniva qua, a casa mia. E proprio nel momento in cui volevo ampliare il perimetro della mia visione, scoprire, indagare, capire. Mi faceva sentire orgoglioso e riconoscente. Da lì in poi non ho mai pensato a un agosto lontano da Locarno».
Alessandro de Bon