News  ·  04 | 08 | 2023

Mademoiselle Kenopsia

Un'opera capace di favorire un'identificazione così rara che le parole risuonano perfettamente nella mente del pubblico.

© Vincent Biron

Spazi scarni e asettici, una messa in scena minimalista e minuziosa, una misteriosa donna che vive nell’ombra di mura incompiute che si pone domande esistenziali sul senso della vita e sul legame tra spazio e tempo. È attraverso questa influenza kafkiana volta all’assurdo e al grottesco che Denis Côté presenta la sua ultima fatica in Fuori Concorso, regalando un film fresco, sorprendente e spiritosamente angosciante.

 

Una donna confinata all’interno di questi spettrali spazi sente un improvviso frastuono che tende a insinuarsi nei propri pensieri. Decide di telefonare a qualcuno per raccontare l’accaduto e cercare spiegazioni, ma la conversazione prende una piega esistenziale e la donna inizia a questionarsi sul senso della vita relazionandosi alla propria solitudine. Questa è la motivazione per affrontare un discorso che – astutamente - non risulta mai meccanico e faticoso, ma piuttosto divertente e insolito poiché parte da una curiosità fanciullesca per finire a riflettere su questioni che coinvolgono tutti noi.

 

Mademoiselle Kenopsia è un’opera in grado di favorire un’immedesimamento raro tale che i discorsi risuonano perfettamente nella mente di chi guarda. Per essere chiari: c’è una sequenza di cinque minuti che parla di una sigaretta mentre viene fumata e l’analisi di questo vizio definisce il tempo nello spazio attraverso l’osservazione del movimento del fumo per la stanza. Ogni sequenza è costruita al fine di sollevare una realizzazione di quanto non siamo artefici della nostra vita, della volatilità di quest’ultima e della vanità della memoria.

 

Denis Côté si prende i primi dieci minuti di pellicola per far familiarizziare lo spettatore all’interno di questi vuoti e aridi spazi, che tendono a evocare una sensazione di smarrimento e di incompiutezza, come se fossero parte di un cantiere abbandonato. Un abbandono perpetuo che definisce lo stato d’animo della protagonista, che nella perdizione causata dalla solitudine si immagina incontri che possano fornire una risposta al suo persistente stato di sospensione e attesa che qualcosa accada.

 

Il production design, in linea con la meticolosa fotografia e la minimalista messa in scena, dà vita a un mondo confinato tra le mura di questi edifici ma che rimane ampio e mai opprimente, nonostante le finestre filtrino qualunque ricerca di contatto con l’esterno. Un mondo che rappresenta una condizione umana inestricabile, che non ci fa mai sentire completi e che ci fa realizzare che non avremo mai le tanto desiderate risposte alle nostre domande. La sceneggiatura è scritta in buona parte sotto forma di monologo, anche se il destinatario rimane indefinito,ma è grazie a questa forma di espressione che lo spettatore ha l’accesso all’immedesimazione con la protagonista. Nei pochi dialoghi presenti ci sono campi e controcampi pensati (attraverso un leggero plongé dall’alto) per abbandonare e isolare il soggetto dallo spazio circostante per permettergli di riflettere sulla sua opprimente condizione umana. Il tutto viene farcito da una colonna sonora elettronica, spesso in contre-point, che strizza l’occhio al Sci-fi evocando ancora di più il senso dell’immenso e dell’assurdo.

 

Mademoiselle Kenopsia può rappresentare molti stati d’angoscia appartenenti al destino umano. Gli spazi chiusi rappresentano l’immensità di quello che non sappiamo e non sapremo mai. Ma la condizione umana ci mantiene curiosi, di conseguenza non conosce noia e questa è una delle più grandi virtù che è intrinseca in noi. Godete di questo film e fate un viaggio nell’umile bellezza della nostra vita!

Alessandro Panelli