Long live theatrical cinema! Termina con questo vibrante appello alla causa del cinema, la lettera aperta di Denis Villeneuve pubblicata qualche giorno fa da Variety. Il motivo della lettera risiede nello scoramento con il quale il regista di film celebrati sia dal pubblico che dalla critica come Prisoners, Sicario, Arrival e Blade Runner 2049 ha accolto l’annuncio che tutta la produzione della Warner Brothers prevista per il 2021 diventava disponibile sulla piattaforma HBO Max in contemporanea con il lancio cinematografico. Fra gli altri titoli coinvolti in questa decisione figurano Cry Macho, il nuovo e atteso film di Clint Eastwood e The Matrix 4 di Lana Wachowski. Il motivo per cui la lettera aperta di Villeneuve merita attenzione riguarda il modo e i toni con i quali il regista dissente dalle strategie distributive della WB.
Villeneuve non risparmia critiche molto precise e molto forti, dichiarando di fatto di sentirsi tradito da coloro che avrebbe dovuto promuovere al meglio l’attesissimo Dune, il film che lui definisce “il lavoro migliore che io abbia mai fatto”. Attenzione, però! Villeneuve non si scaglia banalmente contro le piattaforme o lo streaming tout court, cui anzi riconosce gli indiscutibili meriti, e non solo nel quadro dell’emergenza sanitaria che continuiamo a vivere. E nemmeno si scaglia contro le serie televisive, che considera al pari della creazione cinematografica. Il risentimento di Villeneuve nasce dalla sua costatazione di come l’esperienza cinematografica sia ritenuta sempre più minoritaria e insignificante.
Pascal Blum sul Tages Anzeiger dello scorso 14 dicembre analizza in dettaglio le conseguenze che tali trasformazioni introducono nella fruizione e nell’economia del cinema. Denis Villeneuve afferma senza mezzi termini: “Once the pandemic is over, theaters will be filled again with film lovers. That is my strong belief. Not because the movie industry needs it, but because we humans need cinema, as a collective experience”. Una dichiarazione di fiducia nella resistenza del cinema che va in netta controtendenza rispetto alle analisi di coloro che immaginano il futuro delle immagini in movimento come un atto destinato a compiersi su dispositivi mobili, o nell’intimità (isolamento?) della propria abitazione. Villeneuve ci ricorda, è qui risiede il valore del suo intervento, la natura eminentemente sociale e culturale del cinema. E non teme di apparire come il difensore di una causa considerata persa. Anzi, osa dare corpo anche al nostro rifiuto di considerare l’esperienza del cinema come un residuato del ventesimo secolo.
L’affondo è preciso. Esemplare: “Economic impact to stakeholders is only one aspect of corporate social responsibility. Finding ways to enhance culture is another. The moviegoing experience is like no other. In those darkened theaters films capture our history, educate us, fuel our imagination and lift and inspire our collective spirit. It is our legacy”. La dichiarazione di fede è potente: “I strongly believe the future of cinema will be on the big screen”. La fiducia nel cinema come atto fondante di una comunità. Un atto federativo di un sentire comune, ma anche il sognare davanti alle ombre della caverna dove (continuiamo a imparare) a distinguere la luce dal buio. Ecco: la difesa del cinema come segno e presenza delle comunità degli umani e dei loro sogni. Delle loro aspirazioni a essere migliori. Ma anche la difesa dello specifico cinematografico: il cinema appartiene al grande schermo più che altrove. Una tale fiducia nel cinema, oggi, al cuore di una pandemia che ha introdotto il concetto di “distanziazione sociale”, va salutata con il massimo rispetto, l’entusiasmo più incondizionato e la fiducia più ottimista nel futuro. E, signor Villeneuve, nel ringraziarla, se volesse presentare il suo Dune sullo schermo più grande del mondo, noi l’aspettiamo a braccia aperte in Piazza Grande.
Giona A. Nazzaro