Non c’è niente di più inebriante che rovesciare le regole. Su questo istinto, radicato nell’animo del bambino e poi di tanto in tanto ripescato dall’adulto, il cinema comico ha costruito le sue fortune: prendendosi gioco dei potenti, mettendo a soqquadro i regimi consolidati, tradendo lo scopo per cui attrezzi e luoghi sono stati creati. I grandi corpi comici sono delle provocazioni all’ordine costituito: dando libero sfogo a istinti repressi sublimano quel piacere di ribellione che sta alla base di ogni uomo. Senza essere rivoluzionario – anzi spesso ha un ruolo normativo – il cinema è qualcosa che sospende le regole, quelle valide di tutti i giorni. Il cinema è intermezzo, intrusione di un altro sguardo nel nostro orizzonte visivo, (forse per questo oggi il cinema fatica a tenere il passo di una società che non ammette pause).
Apparsi nel secondo secolo di vita del cinematografo, i film di Lav Diaz hanno da subito messo in crisi l’idea che il cinema sia un interludio. Vedendo Heremias o Evolution of a Philipino Family, resistendo alla loro durata eccessiva, si ha l’impressione che sia la realtà esterna l’intermezzo e il mondo pensato dal cinema l’universo da abitare. Si è spesso parlato dal potere affabulatorio dei suoi racconti – c’è qualcosa però di ancora più primordiale in questo modo di fare cinema, che prevede inquadrature studiate nei dettagli e una narrazione che abita il piano dell’inquadratura, come lo farebbe un personaggio. Una volta trovata la posizione della macchina da presa, disposti i personaggi e i loro movimenti, Lav Diaz lascia che il tempo inondi l’inquadratura: a volte è un’irruzione improvvisa, altre volte è un lento fluire. Prima che etica questa scelta è esistenziale. Il rapporto tra racconto e tempo si rovescia.
Film dopo film Lav Diaz ha compiuto un processo di erosione delle regole consolidate, dalla scansione del racconto cinematografico ai ruolo dei generi. La forza dirompente del suo ultimo film risiede nel fatto che qui ha preso di mira quel principio che fa del cinema uno strumento di evasione, di fuga in una realtà migliore. Lo ha fatto scegliendo il genere che meglio incarna questa idea, il musical, e rovesciandolo come un calzino. Se già altri registi avevano provato a virare il musical verso un universo più oscuro, mi pare che Lav Diaz sia il primo ad avere usato le canzoni come modo per raccontare l’indicibile, per dare una forma a ciò che dovrebbe stare fuori scena. In Season of the Devil, le canzoni sono metafora della tortura. Sono l’espressione della violenza di un potere che non guarda in faccia nessuno. Per questo una volta compreso il loro ruolo arrivano quasi sgradite allo spettatore che pure non può esimersi dal cadere soggiogato al fascino della litania. (Viene in mente il modo in cui le canzoni venivano usate come elemento di propaganda o istigazione alla violenza ad esempio dai Tutsi contro gli Hutu). Season of the Devil è tra i film più cupi realizzati da Lav Diaz, non tanto perché guarda direttamente una delle facce più odiose del regime ma perché il racconto segue un’ineluttabile deriva che porta alla progressiva scomparsa dell’umano. Da questo punto di vista la figura del poeta che ha perso la sua ispirazione e beve tutto il giorno è emblematica.
Quando la violenza ha fatto il suo corso e ha lasciato dietro di sé un paesaggio in rovina, non c’è spazio che per la desolazione. E Lav Diaz è unico nel filmare la desolazione dell’anima. Egli riesce a esprimere un senso di sconforto che va al di là della finzione storica e dei personaggi che la veicolano. Alcune scene hanno il potere di cristallizzare il dolore, come faceva la pittura nell’Ottocento. Le scelte formali e linguistiche – che per uno spettatore occidentale costituiscono la porta d’ingresso all’universo dei suoi film – condensano la riflessione storica, politica e umana. Lav Diaz ha una fiducia unica nel potere del cinema di trascrivere idee. Le inquadrature diventano idee nel senso che, pur rimandando a una situazione storica e politica ben determinata, pur consentendo paralleli con il presente (il terribile presidente a due facce e l’attuale presidente delle Filippine), lasciano vibrare il sentimento dell’assoluto. E se il male assoluto è oggetto di un riso sardonico, la desolazione del poeta che con la pistola in mano piange la morte della moglie è qualcosa che parla a tutte le generazioni e a tutte le latitudini.