Incominciamo dal titolo. Sophia Antipolis nasce nel 1970 dall’idea di uno scienziato francese che volle creare, a pochi chilometri da Cannes, un parco tecnologico. Che cosa ne sia oggi di questo cluster d’imprese poco interessa a Virgil Vernier, regista-topografo che era già stato a Locarno con Orléans e che si era fatto notare con il successivo Mercuriales. Sophia Antipolis è un luogo senza centro o periferia, che nel suo essere amorfo incarna qualcosa di molto specifico dei nostri tempi. Una sorta di villeggiatura permanente dove le azioni sembrano accadere senza rapporto tra loro, dove le persone non hanno un lavoro regolare ma vagano in un dato perimetro.
Tra adolescenti insoddisfatte dei propri seni e una vedova rimasta a vivere in Costa Azzurra come potrebbe capitare a una nave in un porto straniero, tra comunità religiose che predicano la nascita di un nuovo mondo e strani individui impegnati in ronde notturne, la mappatura operata da Vernier flirta con il documentario, accostando materie in apparenza poco lavorate che acquistano senso solo con il procedere del racconto. Come per certi dipinti che vanno visti solo a distanza, bisogna avere pazienza e attendere la fine del film per comprendere che cosa colleghi i personaggi e i luoghi che frequentano. Salvo poi rendersi conto che l’immagine impressa, in quella sorta di radiografia dell’animo di una società che il regista tende a realizzare, rivela una preoccupante macchia oscura.