Non c’è una sola scena girata alla luce del sole in M, e coerentemente con la scelta di un’immagine noir per il suo nuovo documentario Yolande Zauberman mette spesso il suo straordinario protagonista Menahem Lang (già attore in un paio di film di Amos Gitai) in un’auto a vagabondare tra i quartieri ultra-ortodossi di Tel Aviv, sulle note nostalgiche di un jazz d’atmosfera, come fosse un private eye alle prese con un misterioso delitto. Qui però sia la vittima, Menahem stesso, che i colpevoli, i rabbini e maestri che lo hanno ripetutamente violentato da bambino, sono noti e chiamati in causa fin dall’inizio: cosa resta da scoprire? L’indagine di Menahem, pedinato dalla camera di Zauberman, si concentra sulla ricerca delle altre vittime, tutte quelle che a differenza del protagonista non hanno avuto la forza di vendicarsi denunciando le violenze subite, affrontando l’estromissione dalla società e l’ostracismo delle famiglie. Loro si sono ritratti nel buio, hanno affogato nel silenzio i traumi subiti, e dal buio e dal silenzio emergono uno dopo l’altro, rispondendo alla febbrile chiamata di Menahem, trasformando il racconto di una vicenda personale nella denuncia di una terribile esperienza condivisa, di padre in figlio. Sette anni dopo Would You Have Sex with an Arab?, Zauberman torna ad interrogare Israele sulla sua sessualità, i suoi tabù e pregiudizi, questa volta mirando al rimosso più colpevole di un’intera comunità, districandosi tra tradizioni, rituali e generazioni per ritrarre con coraggio ma anche compassione, lei donna e laica, un mondo interamente maschile dominato dalla religione.