Quando per Short Skin, l’esordio di Duccio Chiarini, sono stati usati aggettivi come sobrio e delicato, in realtà si è mancato l’oggetto del contendere e sottovalutato il regista. La grande commedia italiana lo è, grande, perché è spigolosa e irriverente. Lo è perché ha una precisione quasi documentaria. Lo è perché sa che non è comico il film, ma la realtà che racconta o da cui è ispirato. Ebbene, tutte queste qualità, già sintomo di pura intelligenza filmica nel citato esordio, diventano addirittura segno di una sorprendente e precoce maturità nel nuovo L’ospite. Se i toni sembrano ancora una volta apparentemente dolci e diluiti, è questa un’idea di fraseggio con cui Chiarini maschera l’inquietudine di chi sa che il punto è la grossolana universale commedia che è diventata la società italiana. L’ospite su questo non fa sconti, bisogna essere generazionali, scegliere una zona paludosa e non aver paura di affondare: la famosa crisi di mezza età e la fanghiglia che le è propria. Ed ecco allora il quasi quarantenne Guido (un bravissimo Daniele Parisi) che, di fronte ai primi, e per lui ovviamente inaspettati, tentennamenti della sua compagna Chiara (le donne, si sa, sono veggenti e queste cose le capiscono prima), si smarrisce, affonda. L’idea comica di Chiarini è geniale e più violenta di quanto sembri: Guido chiede ospitalità. Ai genitori, certo. Ma soprattutto ai suoi amici. Comincia una peregrinazione di divano in divano che lo pone nelle vesti dell’osservatore e che alla fine ne sposterà completamente il punto di vista – salvandolo. Guido scopre i problemi e le incomprensioni di coppie che pensava felici e indistruttibili come la sua. Più che tono narrativo, Chiarini ha un’idea filmica: smettere di guardare solo a se stessi e ricominciare a guardare il mondo per cambiarlo.