Chi crede ancora fermamente che il cinema sia il luogo dove con più naturalezza possa essere mostrato ciò che nella vita è urgente ed essenziale - è Siyabonga di Joshua Magor il film che deve vedere. Qui viene raccontata la storia semplice e atavica di un uomo (anzi, come si capirà, di due uomini, regista compreso) che si mette in viaggio alla ricerca di qualcosa che finisce per coincidere con il viaggio di qualcun altro e rivoluzionare entrambi. Il paesaggio sterminato e vertiginoso del Sud Africa (siamo nella zona del KwaZulu-Natal), i ritmi sincopati, la caméra che si muove ampia e fluida, i piani-sequenza che danno il senso del tempo facendone una sorta di persistenza della materia, il sonoro che si alza spasmodico, l’immane tragedia che dimora nel passato del protagonista e che risale repentina a mutare il presente, la preghiera che apre e chiude il film: tutto in Siyabonga è storia individuale ed evento collettivo. C’è l’uomo e la sua storia e c’è la storia della Nazione di cui l’uomo è carne viva. E a strato si aggiunge strato: tutto quel che si vede nel film è realmente accaduto, l’incontro fra il garnde attore protagonista Siyabonga Majola che risponde a un’inserzione di Joshua Magor in cerca di attori per un film; Joshua Magor che, dopo averlo ascoltato, cambia idea e decide di fare un film esattamente sul viaggio che Siyabonga ha intrapreso per venire a conoscerlo. Tutto viene ri-recitato e ri-accade. Magor mette in scena qualcosa di più del semplice rapporto fra documentario e finzione, qualcosa di più profondamente legato all’essenza delle cose e alla ricerca della verità.