Come in The Journals of Musan (2010) e Alive (Locarno67), e in un modo che per certi versi evoca Burning (2018) di Lee Chang-dong (di cui fu un tempo aiuto regista), Park Jung-bum fa riecheggiare la prosperità economica della Corea del Sud nelle zone marginali, dove è desiderata ma irraggiungibile. Nello specifico, un paesino di pescatori che il sindaco vuole trasformare in lucrativa destinazione turistica non cessa di tornare alle sue arcaiche tradizioni, pulsioni e credenze, come la paura dei cinghiali che vivono nei boschi circostanti e lasciano, nei primi minuti di Pa-go (Height of the Wave), un cadavere bovino.
Trasferita in questa località costiera dove i suoi superiori l’hanno mandata a vivere con la figlia dopo il divorzio, la poliziotta Yeon-su (Lee Seung-yeon) sembra sprofondare di nuovo in un incubo dal quale si è però svegliata, e che non smetterà di alterare la sua percezione degli eventi. Aprire il film con immagini oniriche che si riveleranno premonizioni insignificanti la dice lunga sulla prossimità che il regista instaura tutto il tempo tra reale e irreale: senza mai deviare da un naturalismo paludoso, descrive al contempo le aspirazioni di una comunità e i mondi che l’hanno generata, svela una realtà complessa attraverso le perversioni della paranoia, le chimere dell’avidità, gli eterni rinnovi dei traumi. Questa è la ricchezza discreta di un lungometraggio basato su una serie televisiva, che si muove tra film di genere e studio naturalistico, rimandando l’ideologia del progresso alla sua natura nevrotica.