News · 19 | 03 | 2020
News · 19 | 03 | 2020
Parlare di Nouvelle Vague laotiana suonerebbe stonato, fuori spartito. Nonsense. Non fosse altro perché prima, lì, non c’era un bel niente da rivoluzionare. Lui però, Anysay Keola, della New Wave del cinema laotiano è respiro e ossigeno. Tra numeri minuscoli e realtà ai limiti dell’impercettibile Anysay da anni lavora alla costruzione di un proprio domani cinematografico. Suo, ma anche se non soprattutto di un intero movimento, di un collettivo che ha voglia di alimentare quei numeri e uscire dal silenzio di un buio in sala che al momento è molto buio e poco, anzi poche sale. «Abbiamo quattro sale in tutto il Paese - ammette il regista di At the horizon, pellicola che ha partecipato a tracciare un nuovo anno zero del cinema laotiano - per un totale di 16 mila biglietti staccati per una popolazione di 7 milioni di persone. Dobbiamo ricostruire la cultura, chiaro, ma io credo che un pubblico ci sia, che possiamo e dobbiamo (ri)costruirlo. Dobbiamo rifondare una cultura cinematografica. Guardate l’ultimo film di Mattie Do: è stato a Venezia, ma qui non lo conosce nessuno. Non interessa al Governo, dunque non è arrivato al pubblico».
Qual è il rapporto con il Governo?
«Il cinema è il mezzo di comunicazione a cui presta più attenzione, e spesso questo si manifesta con la censura. Con il cinema del Laos, con il nostro cinema, è molto più severo che con il cinema internazionale».
E voi autori in che direzione andate?
«Stiamo cercando di costruire il mercato in cui poi portare il pubblico. La mia ultima pellicola è una commedia romantica, cerco di leggere la realtà e partecipare al movimento generale».
Come si costruisce un mercato?
«Incoraggiando gli investitori, reinventandoci proprio quella cultura cinematografica addormentata che nella società però esiste. Poi, un passo alla volta, cercheremo di alzare il livello della qualità dei film: il primo risultato alimenterà il secondo. È essenziale rendere la produzione sostenibile, non possiamo contare solamente sulle sovvenzioni internazionali e comunicare esclusivamente con l’estero. Le relazioni sono essenziali, ma la comunità locale è imprescindibile. Oggi la nostra comunità cinematografica conta forse dieci persone, tra cui me, gli autori della Lao New Wave e Mattie Do».
Qualcosa si è mosso da At the Horizon a oggi?
«Sì, credo che il pubblico oggi abbia più fiducia nel nostro cinema, nel suo cinema, il cinema del suo Paese. At the Horizon non a caso era fortemente influenzato dalla cultura televisiva, dalla soap-opera; ora stiamo alzando l’asticella, il livello delle produzioni. In questo senso le nuove tecnologie sono state e sono una porta aperta, ci hanno permesso di accedere a qualcosa che altrimenti, in altre epoche, avrebbe avuto costi inavvicinabili».
Anysay è cresciuto?
«Ho studiato cinema a Bangkok e passato 5/6 anni a sviluppare il mio nuovo lungometraggio; tutto è mosso dalla passione. Trascorro il mio tempo principalmente lavorando per la pubblicità, la mia vera fonte di reddito, cercando di bilanciare continuamente passione e lavoro».
Lao New Wave come lavora?
«Portiamo avanti un attento lavoro per riuscire a raggiungere gli investitori, che è senza dubbio il passo più difficile; non abbiamo bisogno di standard elevati, possiamo lavorare con attrezzature base, troupe snelle, leggere, così da arrivare nelle zone più remote del Paese; ma i finanziamenti restano indispensabili per muoversi. Contemporaneamente cerchiamo di produrre i registi più giovani, teniamo workshop, partecipiamo a concorsi… Lo scorso autunno sono stato giudice a un concorso di spot televisivi e ho notato che la qualità si sta alzando. Credo che il 2020 sarà un anno interessante per l’onda cinematografica del Laos».
Quale può essere il ruolo di Festival internazionali come Locarno?
«Possono essere il luogo in cui realizzare il nostro potenziale».
Piattaforme VOD: opportunità o rischio?
«Possibilità. Netflix sta iniziando a investire molto in Thailandia e io credo che, aiutati dalla lingua, i nostri contenuti siano molto simili. Al momento però non sono ancora interessati a noi e non credo guarderebbero nemmeno i nostri prodotti. Sono piattaforme che stanno diventando popolari tra il pubblico, ma senza il riconoscimento del Governo. Possiamo guardare YouTube, ma non aprire un nostro canale, se non registrandoci in Thailandia. Così come proprio per Netflix abbiamo bisogno di una carta di credito o valuta estera».
Come immagini il cinema laotiano nel 2030?
«Lo immagino in Thailandia (sorride, ndr). Sperando e credendo di poter alzare il livello delle nostre produzioni e aspettando di avere una cultura cinematografica nostra, e dunque un mercato interno, credo che il primo grande passo per noi potrebbe essere raggiungere il mercato thailandese e rendere così sostenibile la nostra industria. Chiaro, non diventeremo grandi come il cinema coreano, siamo realisti e sappiamo quanto la strada sia lunga. Per questo dico che un passo importante sarebbe essere riconosciuti, e visti, in Thailandia. Oltre ovviamente che dai Festival cinematografici internazionali».
Produzione laotiana e distribuzione thailandese.
«Non chiudo assolutamente ad eventuali produzioni con autori thailandesi. Quello che non vorrei è doverci affidare a loro. Voglio far sentire la voce del Laos. Sono convinto che in giro ci siano orecchie che vogliono ascoltarla».