È la parabola di una favola, con tutta la sua curvatura satirica e caricaturale, a portarci dentro la comunità di un villaggio africano, dove le credenze religiose possono invertire gerarchie sociali e trasformare pregiudizi nel proprio opposto. Con Au Nom du Christ (1993) il regista ivoriano Roger Gnoan M'Bala usa infatti la chiave di un paradosso per mostrare quanto sia labile, nella mentalità di una piccola collettività, il confine che separa l’incredibile dal credibile per tutta quella nebulosa di riti e superstizioni che lo avvolgono. Basta che un semplice custode di maiali, disprezzato ed emarginato dal resto del villaggio, dopo essere caduto in fiume in preda all’alcool, abbia la visione di un Gesù bambino nero e quello stesso Gesù lo indichi come salvatore del proprio popolo che di colpo tutti parametri grottescamente s’invertano. Così, dalla diffidenza iniziale all’essere percepito come un nuovo Messia, il passo è breve se intervengono miracoli che sfruttano il lato comico della vicenda per strappano una risata ma al tempo stesso aprire in sottotraccia una riflessione sociale più profonda. Quella del problema della crescente proliferazione delle sette e di tutte le aberrazioni che possono innescare in un'Africa, da sempre scissa fra tradizione, modernità e sete di potere. Un film che è africano ma che batte anche bandiera svizzera per la presenza di una produttrice come Tiziana Soudani (recentemente scomparsa) oltre alla fotografia della pellicola firmata dal marito, Mohammed Soudani che quest’anno torna al festival nella sezione The Films After Tomorrow con un nuovo progetto, l’Afrique des Femmes, pronto a illuminare da nuova prospettiva lo stesso continente.
Lorenzo Buccella