C’è un che di poetico nella storia produttiva di O Bobo: la lavorazione iniziò nel 1978, e dopo varie revisioni a livello di scrittura, riprese e montaggio il film arrivò a Locarno, dove vinse il Pardo d’oro, per poi essere ulteriormente rimaneggiato prima di poter uscire al cinema, nel 1991. Quasi un continuo work in progress, un po’ come ciò che accade nel film stesso, dove due vecchie fiamme ricordano le prove complicate di uno spettacolo teatrale, anch’esso intitolato O Bobo (dal romanzo di Alexandre Herculano), con il regista che a un certo punto si mette a vendere armi per finanziare il proprio lavoro. Inizialmente concepito come un vero e proprio adattamento del libro, il film di José Alvaro Morais diventa così una riflessione sul processo creativo e sulla trasformazione di un paese: sullo schermo e nella realtà erano passati pochi anni da quella Rivoluzione dei Garofani che portò alla fine del regime salazariano. Come un giullare, il Bobo del titolo originale, Morais racconta un pezzo di Storia con fare caustico e beffardo, allestendo il tutto con ambizioni e atmosfere da opera lirica che sono però condite con la giusta dose di humour surreale unita alla malinconia. E anche senza conoscere i retroscena della lavorazione c’è quella sensazione di (volutamente?) incompiuto, di qualcosa che si ferma solo perché c’è il limite artificiale della durata di due ore. E in quell’aria perennemente provvisoria si percepisce tutta la gioia di un cineasta che vuole continuare a raccontare, anche dopo l’uscita del film.
Max Borg