La partenza, nel presente, è nel ritrovamento di ossa umane; il viaggio all’indietro diventa un western anomalo che ancora una volta scava lungo i margini della frontiera le radici più lunghe dell’identità americana. Quella che la cineasta Kelly Reichardt ha sempre interrogato in tutti i suoi film (Old Joy, Meek’s Cutoff) e che qui in First Cow riattraversa, aggiungendo alla propria mappa visionaria un nuovo momento d’inizio. Nell’Oregon del 1820, là dove – come vien detto nel film - la storia non è ancora arrivata e dove l’amicizia può nascere casualmente, come gesto di mutuo soccorso tra un cuoco in fuga e un immigrato cinese, per poi far da leva alla ricerca di un sogno americano che permetta l’uscita da fame e miseria. Un sogno, qui sprovvisto di duelli e pistole e scrostato di ogni retorica, proprio perché vissuto dalla prospettiva non-violenta di due outsider pronti all’inganno pur di dar vita alla loro avventura. Perché il capitalismo, per Kelly Reichardt, può nascere anche così, mungendo furtivamente una mucca altrui e rileggendo in modo critico quel mito fondatore, basato sull’affare, che l’America ha da sempre messo a bandiera. E ancora una volta, per raccontare la grande storia, la regista americana inverte le proporzioni, scegliendo il suo sentiero più dimesso, a tratti ironico, ma non per questo meno irrequieto. Con uno spartito di inquadrature che evidenzia silenzi e dettagli, lasciando montare l’aspetto umano della vicenda senza le scorciatoie ciniche o edulcoranti, proprio perché inserito all’interno di una natura da western ancora selvaggia. Presente col proprio peso visivo all’interno di ogni immagine, ma indifferente ai destini dei due protagonisti- amici.
Lorenzo Buccella