Non è soltanto il tutto che si rompe in frantumi, perché i brevi episodi che funzionano a singhiozzo qui trovano la loro punteggiatura nelle loro continue pause, con lo schermo che va a nero, intervallando i piano-sequenza, quasi tutti girati in interno e con pochi attori a spartirsi la scena. Quando Stranger than Paradise conquista il Pardo d’oro al Locarno Film festival del 1984 è proprio per il ritmo ipnotico di questo film senza montaggio, attraversato in sottotraccia da quell’umorismo lunare che sfiora dialoghi striminziti e silenzi. Cioè tutto quell’armentario geniale che poi diventerà una vera e propria cifra stilistica, a contrassegnare l’intera filmografia di Jim Jarmusch. Là dove l’approccio minimalista trascolora in quella bolla di realismo stralunato in cui si muovono i tre protagonisti della vicenda. Lo squattrinato ex-profugo ungherese Willie costretto a tamponare la sua cronica mancanza di soldi con il gioco d’azzardo; l’amico Eddie che gli fa da specchio; e poi cugina ungherese che sconvolgerà tutto con il suo arrivo a sorpresa. Parte da lì questa sorta di road movie rallentato dove il motore non sembra mai essere un partire, ma un continuo fuggire, perché a ogni meta corrisponde la consapevolezza che nulla è cambiato e che il paradiso vagheggiato nel titolo se c’è, è in un “nessun luogo”. Una coazione a ripetere dove a far habitat naturale ai personaggi è quell’irriducibile incomunicabilità che permea l’ossigeno tra le persone, tutte costrette a sbandare nella continua ricerca di trovare un proprio posto nel mondo.
Lorenzo Buccella