È uno di quei pochi nella storia del cinema che rappresentano davvero un continente non solo geografico, ma anche e soprattutto cinematografico, talmente vasto nella sua portata estetica da incastonare i suoi singoli ingranaggi in una perfetta macchina d’insieme. Da qualsiasi parte si cerchi di guardare C’era una volta in America non sembra esserci prospettiva che non finisca per esaltare sé stessa, proprio nel momento in cui si accorda armonicamente al mosaico finale. A partire dall’afflato epico e visionario con cui Sergio Leone attraversa l’epopea di un gruppo di gangster. Un viaggio proustiano che prende il primo rimbalzo dal quartiere ebraico della New York anni ’20 per poi infilarsi in un dai-e-vai temporale che abbraccia un quarantennio in una crescita criminale che inevitabilmente incoccia bivi esistenziali e amori impossibili da condividere. È la storia che si fa flusso, rompendo le linee di un tempo (perso, ritrovato o rimpianto) perché a ossigenare questo capolavoro in ogni sua molecola è proprio una nostalgia prettamente cinematografia che riflette sul tempo che passa. Ed è qualcosa che un cast in pieno stato di grazia (De Niro, Woods, McGovern, Connelly, Pesci, Williams) riesce a vestire in tutte le sue piegature più ambigue per approdare nelle nuvole d’oppio dove il film trova il finale o forse il suo vero inizio. Tutti quegli spazi intermedi di mistero che le straordinarie musiche di Ennio Morricone colmano e nello stesso amplificano, fino a penetrare e permeare il cuore più profondo del film. L’ennesima traiettoria che assieme alle altre trova il miracolo cinematografico in cui tutto pare riunirsi in un unico punto lungo 251 minuti.
Lorenzo Buccella