Ryan Reynolds è uno dei divi più interessanti e imprendibili del cinema hollywoodiano contemporaneo. Ad attraversare la sua filmografia ci si rende conto che l’interprete ha costruito con grande attenzione una figura trasversale, coerente con la sua immagine di attore comico, ma snodabile e pronta a raccogliere sfide anche molto diverse fra loro. Diventato un divo autoironico e paradossalmente metatestuale grazie al successo planetario di Deadpool, Reynolds è una sorta di mutante dello star system contemporaneo. Non è un caso che Shawn Levy (regista di Una notte al museo) abbia pensato, per il protagonista di Free Guy, proprio a Reynolds.
La premessa narrativa del film è di quelle che fanno impazzire sia i nerd che i semiologi (una di quelle cose lì, insomma). Guy (Reynolds, ovviamente) è un personaggio non giocante (PNG), programmato per svolgere una noiosa esistenza di commesso di banca. Due hacker decidono di utilizzare proprio lui per installare un programma che gli permette di prendere consapevolezza che la sua vita in realtà non è la sua e che tutto ciò che si svolge intorno a lui è stato scritto altrove. Il cambiamento di prospettiva non potrebbe essere più sconvolgente. Tutto ciò che sembrava “normale” sino all’altro ieri diventa il segno di una regia esterna, invisibile.
Guy decide di diventare l’eroe e il protagonista della sua vita. Si tratta ora di impedire ai programmatori di spegnere il suo personaggio e, allo stesso tempo, di salvare il gioco per dare vita a un… gioco completamente diverso. Anche da queste poche battute, si capisce bene che il film può essere visto sia per il piacere di partecipare a un paradossale film d’azione, sia come riflessione colta sulle forme di esistenza artificiali e provvisorie con le quali ci confrontiamo in continuazione digitando sulle nostre estensioni digitali ed elettroniche. Marshall McLuhan probabilmente approverebbe.
Giona A. Nazzaro