Primo lungometraggio e primo premio…
Non so se dire inaspettato o meno. Abbiamo lavorato sodo e volevo far bene. Volevo vincere, sarei un ipocrita se dicessi il contrario. Volevo arrivare con questo film a quest’obiettivo. Le giurate hanno deciso così e le ringrazio tanto, così come Giona A. Nazzaro e il Locarno Film Festival.
È una storia che ha raccontato in un cortometraggio, prima che diventasse un lungo. Cosa l’ha fatta pensare che meritasse di essere raccontata?
Il modo in cui io vivo e guardo l’Italia insieme ai due autori con cui ho scritto il film, Emanuele Mochi e Giuseppe Brigante. Da come interpretiamo e viviamo il paese. La nostra esigenza era raccontare l’Italia del presente attraverso un nostro punto di vista, lontano dagli stereotipi o dalle etichette, come spesso accade in Italia.
Il cinema è un lavoro di squadra.
La regia è uno sforzo collettivo. Per come la interpreto io è la finalizzazione di tutto ciò che è stato prima, del lavoro di tutti i capi reparto e le persone che hanno lavorato. Senza di loro non ci sarebbe nessuna regia. La vedo come una cosa “socialista”, non individualistica e orientata all’io, io, io. Senza tutta la troupe, la storia sarebbe rimasta chiusa nella stanzetta del nostro appartamento di Roma.
Quella per il cinema è una passione nata quando era bambino?
Mi sono avvicinato al cinema guardando i film hollywoodiani degli anni Novanta, ma anche precedenti. Uno dei primi di cui ho memoria è La croce di ferro di Peckinpah, del 1977. Quelle scene mi sono rimaste impresse fino a oggi. Quando vivevo in Bielorussia (sono nato lì, a Minsk, nel 1991), con un mio amico d’infanzia ci divertivamo a girare piccole scene d’azione con una telecamera VHS a nastri. Usavamo i fucili da softair e riproducevamo sequenze del cinema action americano degli anni Novanta, per cui eravamo tutti fomentati. È stato il primo passo, inconsapevole, verso il racconto per immagini. Poi durante l’adolescenza è nata questa passione, che per fortuna è diventata un lavoro.
Il suo premio, insieme a quello a Francesco Montagner per Brotherhood, va a un cinema italiano con un respiro e uno sguardo internazionale.
Penso che si debba sempre fare un bilancio. Quest’anno l’Italia ha trionfato a livello sportivo, ma esiste anche la cultura, su cui si basa la società. Questo risultato dimostra la voglia di raccontare storie non convenzionali che vadano oltre gli stereotipi.