Ha vinto un premio importante. Quali sensazioni prova?
Sono emozionantissimo. È un grande onore essere qui, e non mi sarei mai aspettato di ottenere un premio con il mio secondo film. La forza del documentario è anche questa. In un contesto in cui la maggior parte dei film erano di finzione, un documentario italiano è riuscito a vincere. Provo grandissimo orgoglio.
Molti autori stanno raccontando il mondo, la sua universalità, attraverso il cinema del reale.
È un periodo storico molto complicato, pieno di estremismi e polarizzazioni. In un contesto in cui ogni persona ha un’opinione e la esprime in modo anche aggressivo, il cinema documentario è più necessario che mai, per indagare la realtà e scoprirne i lati più ambigui. Può aiutarci a capire il contesto in cui viviamo, non solo nel nostro paese ma anche a livello globale.
In Brotherhood, quanto c’era di scritto nella storia di questi tre ragazzi in una valle isolata della Bosnia?
È stato un lavoro di quattro anni, insieme a Jabir, Usama e Useir. Siamo entrati nelle loro vite in punta di piedi, in modo molto graduale. Non volevamo sconvolgere l’ordine naturale del loro mondo, per farci accettare anche con la telecamera, che poi è diventata un altro protagonista, un altro fratello. Ha svolto un ruolo quasi terapeutico, per dei ragazzi abituati a non comunicare i propri sentimenti. È stato un lavoro bellissimo, in cui abbiamo condiviso sia gioie che dolori. Siamo riusciti a portare sullo schermo questa grande, piccola storia, bosniaca, ma molto universale. Da un certo punto di vista è una favola medievale.
Come siete stati accolti dai tre ragazzi protagonisti?
Ci hanno sempre visto come dei fratelli più grandi. Erano curiosissimi di conoscerci e passare del tempo con noi, non badando alle pecore per qualche ora. Hanno giocato con noi. Il padre, invece, è sempre stato restio e sull’attenti, mettendoci i bastoni fra le ruote. Ma anche con lui, negli anni, abbiamo costruito quantomeno un rapporto di rispetto reciproco. Ha sempre rispettato il fatto che non giudicassimo e non fossimo invasivi. Siamo riusciti anche con un padre padrone così complicato a costruire una fiducia minima.
Questo è un documentario pre-pandemico. Come prenderà atto il cinema del reale di quanto sta accadendo?
Si è già iniziato a fare del cinema sulla pandemia. Il documentario assorbe la realtà a tutto tondo, non ha problemi ad assumere forme diverse, essendo a mio avviso la forma più creativa di fare cinema, o comunque più originale e in evoluzione. La pandemia ha dato un’altra opportunità di reinventarsi e scoprire altre storie.