Di Alberto Lattuada, a Locarno74, si possono studiare ogni gesto e ogni intuizione, ogni successo e ogni fatica.
Scivolando fino al cuore del Novecento italiano la Retrospettiva del Locarno Film Festival offre al suo pubblico l’opera omnia di un autore “tralasciato”: 41 film uno in fila all’altro, tra corti, lunghi ed episodi, per scoprire Alberto Lattuada l’inattuale, Alberto Lattuada il colto, Alberto Lattuada l’americano.
Con il cineasta milanese, architetto, regista, scenografo, sceneggiatore, produttore e critico, Locarno attraverserà oltre mezzo secolo di storia, cinema e società italiana. Dal 1934 de Il cuore rivelatore, cortometraggio di un diciottenne Mario Monicelli di cui Lattuada firmò le scenografie, al 1989 di 12 registi per 12 città: Genova, l’ultima sua regia per il grande schermo.
Nel mezzo, l’intera galassia lattuadiana, ampia, eterogenea e orizzontale, che a Locarno grazie alla curatela di Roberto Turigliatto ha trovato respiro. «Lattuada non rientra nel neorealismo, nei generi, nel pantheon autoriale consacrato», afferma il curatore della Retrospettiva di Locarno74. «È rimasto una figura sfuggente, “eclettica”, per la straordinaria capacità di non ripetersi, di sorprendere o deludere, di rilanciare le carte o di confonderle».
Lattuada insomma non apparteneva ai generi, alle correnti o alle epoche, Lattuada li faceva suoi. Suo il noirealismo (Il bandito, 1946), un «neorealismo all’americana», come fu ribattezzato sfidando il paradosso; sua la feroce commedia nei confronti della borghesia italiana (Mafioso, 1961, o Venga a prendere il caffè… da noi, 1970), di cui fu tra i più severi analisti.
Il primo a essere spiazzato dalle scelte di Lattuada era lo spettatore, che ritrovandosi un Renato Rascel (Il cappotto, 1952), un Cochi Ponzoni (Cuore di cane, 1976) o un Renato Pozzetto (Oh, Serafina!, 1976) su spartiti drammatici, si chiedeva cosa stesse succedendo. E a succedere, “semplicemente”, era il talento di un regista – mai come in questo caso “colui che dirige” – di esaltare la gravità di un profilo comico. Per poi magari prendere Machiavelli e farne una commedia (La mandragola, 1965). Con la stessa dimestichezza Alberto Lattuada portava sullo schermo Puškin (La tempesta, 1958) e lanciava una hit irresistibile come "El negro Zumbón" di Armando Trovajoli, brano centrale del suo più grande successo, Anna (1951). Fu il trionfo di Silvana Mangano, il primo film italiano a sfondare il miliardo di incassi e il primo a godere di una distribuzione negli Stati Uniti.
Con Lattuada andava così, disorientate puntualmente le attese era tutto un gioco a inseguire. Rapiti. Perché Alberto Lattuada non apparteneva al cinema, ma viceversa. Forse per questo è stato difficile riconoscerlo e sicuramente per questo sarà bello ritrovarlo. A Locarno.
Alessandro De Bon