Axelle Ropert, l’anno scorso, a Locarno, Petite Solange era uno dei Films After Tomorrow, progetti interrotti dalla pandemia. Adesso l’opera finita partecipa al Concorso internazionale. È, a suo modo, un ritorno alla normalità?
Lo spero. In ogni caso, è un’occasione felice! A prescindere dalla storia della produzione del mio film, con la pandemia il cinema è stato “attaccato” come mai prima d’ora, e ha bisogno di sostegno ancor più del solito. D’altro canto, è sempre stato un’arte potente e fragile: forse è nella sua natura…
Riprendere il lavoro a tappe è già difficile di suo. In questo caso c’era anche una giovane interprete principale in un momento della vita segnato dai cambiamenti fisici.
Sì, il cinema si fa con esseri umani che cambiano fisicamente di giorno in giorno, è anche per questo che lo amo! Ma Jade Springer, la quindicenne protagonista, aveva una fede artistica così forte (e sorprendente per un’attrice così giovane) che l’abbiamo ritrovata immutata dopo mesi di interruzione: non era cambiata. Credo veramente che le attrici abbiano un lato da “grandi combattenti”.
Il film è un viaggio profondo tra le emozioni più forti di una ragazza che deve fare i conti con il divorzio dei genitori. Quali sono le precauzioni necessarie per raccontare queste delicate tappe di transizione?
Petite Solange è un film con un tema importante, tanto frequente quanto ignoto ai più: il dolore del divorzio così come lo vive un bambino. L’idea era di affrontare l’argomento in modo completo, ma anche di fare un film “bello”, non un compitino scolastico! Dovevo sempre trattare artisticamente quello che volevo dire, e veicolare dei concetti formali anziché dei messaggi…
L’attenzione ai dettagli rende i luoghi dei film dei veri e propri protagonisti. Che scelte ha fatto al riguardo?
La grandezza e l’unicità del cinema sta nel registrare l’hic et nunc del mondo: qualcosa è accaduto in quel momento preciso in quel luogo preciso. Quindi sì, sono una fanatica del dettaglio e della precisione, e volevo che la protagonista fosse costantemente connessa al mondo che la circonda, che è anche il nostro.
Il dolore di Solange è individuale ma nel film diventa quello di tutti. La semplicità dell’intreccio lo rende universale?
Non sta a me dirlo. Ma in ogni caso, l’esperienza dolorosa di Solange è anche la nostra, credo: è semplicemente quella di coloro che sono cresciuti, hanno perso l’infanzia, sofferto, imparato a diventare adulti. «Il mestiere di vivere», come diceva Pavese.
Intervista di Lorenzo Buccella