“Non esistono i film “vecchi”, era solito dire Peter Bogdanovich. “Esistono solo i film che hai visto e quelli che non hai ancora visto”. Cinefilo, critico cinematografico e poi regista chiave della rinascita hollywoodiana degli anni Settanta, la sua traiettoria artistica, umana e creativa ha finito per assomigliare a una storia della Hollywood di una volta, che tanto lo appassionavano e amava. Cineasta cui si devono film indimenticabili come Paper Moon, What’s Up, Doc? e, soprattutto, The Last Picture Show, ha incarnato al meglio il desiderio del cinema statunitense di rinascere criticamente e senza sensi di colpa nel segno di una continuità rivendicata con la tradizione hollywoodiana. “Per molto tempo ho mangiato grazie ai buffet delle anteprime stampa”, aveva avuto modo di rievocare autoironico quando qualcuno gli chiedeva dei suoi esordi. Bogdanovich, rispetto ad altri cineasti degli anni Settanta, non era animato da un desiderio di fare tabula rasa del passato. Il passato per lui era il luogo dove imparare a fare cinema.
Cresciuto in un momento in cui le vecchie glorie hollywoodiane erano ancora quasi tutte in vita ma lontane dal set, Bogdanovich con zelo proselitista, di cui beneficiamo ancora tutti e da cui abbiamo potuto trarre lezioni di importanza capitale, inizia a intervistare uno per uno i maestri della Hollywood di una volta. “Uno cui piace fare molte domande”, lo definì John Ford con la sua sardonica laconicità che non lasciava scampo. Who The Devil Made It e Who The Hell’s In It (il primo dedicato ai registi, il secondo agli interpreti), sono i pilastri della sua produzione letteraria, cui si deve aggiungere almeno l’altrettanto fondamentale Picture Shows – Peter Bogdanovich on the Movies. Si deve a Bogdanovich la prima grande riflessione critica su Allan Dwan, “l’uomo dai mille film”, cui Locarno dedica una retrospettiva nel 2002.
I primi passi nel cinema li muove grazie a Roger Corman che lo chiama accanto a sé per dirigere la seconda unità di The Wild Angels e dove, grazie al suo incontenibile zelo, finisce per fare un po’ di tutto. Con gli scampoli di contratto che Corman strappa a un anziano Boris Karloff per avere terminato anzi tempo The Terror, Bogdanovich mette insieme il suo esordio, il magnifico Targets, a tempo di record. Durante la nostra conversazione pubblica con Roger Corman nel 2016, il produttore rievocava con affetto e ammirazione l’entusiasmo di Bogdanovich e qualche “piccola” complicazione sul set di The Wild Angels. Amico di Orson Welles, presenta al maestro lo storico Joseph McBride (ospite locarnese per la retrospettiva lubitschiana) durante la lavorazione infinita e omerica di The Other Side of the Wind. E sarà proprio McBride a tenere accesa la fiamma wellesiana sino a oggi.
Il successo giunge rapidamente per Bogdanovich grazie a The Last Picture Show. Purtroppo, nonostante i suoi film successivi siano altrettanto forti e interessanti, il pubblico lo abbandona. Nel 2001, dopo ben otto anni di silenzio, Locarno accoglie Peter Bogdanovich con il delizioso The Cat’s Meow, film incentrato sull’omicidio del produttore Thomas Ince avvenuto a bordo dello yacht di Randolph Hearst sul quale si trovavano personalità del calibro di Charlie Chaplin. E nonostante ci si ostini a citare sempre i soliti film, sarebbe ingeneroso non menzionare titoli quali Daisy Miller, Nickelodeon, Saint Jack, They All Laughed!, Texasville, Mask, The Thing Called Love e She’s Funny That Way.
Le generazioni televisive hanno conosciuto Bogdanovich grazie a I Soprano nei panni del dottor Kupferberg, l’analista della dottoressa Melfi che tieni in cura Toni Soprano. L’ultima sua apparizione cinematografica è il cameo in It – Chapter Two di Andy Muschietti. A cavallo di una gru, interpreta… Peter, il regista del film nel film. Personalità come Peter Bogdanovich non scompariranno mai. Sino a quando ci sarà l’amore per il cinema, il nome di Peter Bogdanovich sarà ricordato per sempre.
Giona A. Nazzaro