In fondo, il libro che Renato Berta ha umilmente intitolato Photogrammes (fotogrammi), è molto di più che un’appassionante biografia cinematografica, scritta con la complicità di Jean-Marie Charua. Di fatto, ma ci pare già di vedere Berta che si schernisce, quella raccontata fra le pagine di Photogrammes è una vera e propria storia del cinema. Una storia che ne incrocia molte altre. Una storia appassionante, e che ci ricorda, ancora una volta, perché il cinema è così importante per tutte e tutti noi.
Una storia che inizia in un Ticino che non esiste più e che Berta rievoca con pochi tocchi commossi e profondi. La precisione del gesto del grande direttore della fotografia (ma il diretto interessato osserva che forse si dovrebbe dire “della cinematografia”) si ritrova nelle parole misurate con le quale evoca il Ticino della sua infanzia, la sua Bellinzona. Il desiderio del cinema, la scoperta dei classici di Von Sternberg per esempio. Poi un’altra scoperta fondamentale, quella dell' ”altro” cinema, quello che si vedeva ogni estate al festival di Locarno. Berta la lascia cadere come se fosse nulla, ma si tratta di una differenza fondamentale. A Locarno inizia a sospettare che esiste il cinema e ci sono i film. Tutta la sua successiva carriera professionale, orientata seguendo sempre la possibilità di affinità elettive, si è costruita su questa intuizione, diventata poi scelta di campo. Berta racconta come un tono volutamente dimesso gli incontri con Rossellini al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, dove si diploma, la nascita del cinema svizzero contemporaneo, il Filmkollektiv Zürich da lui fondato, il gruppo dei 5, e gli incontri con le donne e gli uomini straordinari con i quali ha dato vita a innumerevoli capolavori del cinema moderno. Amicizie importanti come quella con Daniel Schmid e Rainer W. Fassbinder, che gli reca la notizia della morte di Pasolini.
La traiettoria di Berta, che s’inscrive nel cuore del cinema giunto dopo la rivoluzione della Nouvelle vague, rivela, attraverso la coerenza delle scelte, che un altro cinema è possibile. La precisione con la quale analizza che il cinema esiste perché c’è “un plan”, un’inquadratura, e che il ritmo del film è dato dal susseguirsi di queste e non (solo) dal montaggio, in fondo chiarisce la scelta di lavorare con registi diversissimi fra loro come Straub-Huillet, Manoel de Oliveira, Philippe Garrel, Patrice Chereau, Mario Martone, Alain Resnais e Amos Gitai. Senza contare Louis Malle, Jean-Luc Godard, Eric Rohmer, Jacques Rivette. Nelle scelte artistiche e professionali di Berta sembra riverberare sempre la scintilla di quell’incontro locarnese con Glauber Rocha, portavoce del novismo brasiliano, che lo spinge ad andare a Roma, a capire come si fa il cinema, lui animatore del locale cineclub. L’elemento ritornante in queste storie che Berta rievoca per il piacere del lettore cinefilo, è come dalla complicità derivino scelte estetiche e come da queste, a loro volta, nascano amicizie.
Le ultime pagine del libro, dove Renato Berta ragiona su quel che può diventare il cinema, cosa è stato e cosa è, è forse la disamina più lucida fatta da un professionista del cinema. Non si limita a spiegare perché le cose non sono più come una volta (in un passaggio chiave poche pagine indietro riporta anche un ricordo di Godard nel quale riconosce alcuni “errori” della nouvelle vague), ma guarda avanti al futuro, a quella “cosa” che forse non sarà più come il cinema di una volta, ma che sta per nascere ora. Quella “cosa” che forse lo ha sedotto nella lucida follia e determinazione di Michelangelo Frammartino di fare un film impossibile come Il buco. Renato Berta, dalla saggezza conquistata sul campo di più di 120 film, ci ricorda che il cinema, in fondo, è ancora tutto da inventare.
Giona A. Nazzaro