Matt Dillon, Lifetime Achievement Award a Locarno75, incontra la Locarno LiveTV e si racconta con carisma e generosità: una carriera ultraquarantennale, davanti e dietro alla macchina da presa, all'insegna dell'assoluta libertà. La storia di Matt Dillon è la storia di un attore e artista moderno.
Come attore ha iniziato in età molto giovane. In che modo questo ha influenzato la sua carriera?
I vantaggi e svantaggi di cominciare presto sono che impari mentre lavori. Da una parte c’è maggior pressione e stai ancora maturando, ma niente batte imparare sul campo, e io ho imparato da alcuni grandi. Osservando e ascoltando. Il mio desiderio di diventare un attore è stato immediato. Dal momento in cui ho iniziato. Ma è partito più dalla mia curiosità per lo storytelling e la natura umana che dalla necessità di recitare. Una specie di specchio della vita.
Che ricordi hai dalla tua prima volta a Locarno nel 1995, insieme a Gus Van Sant in Piazza Grande?
La prima volta che venni a Locarno era il 1995. Venni con Gus Van Sant per To Die For. Ricordo di essere rimasto impressionato dalla dimensione delle sale di proiezione, e che gran posto è per vedere un film. Ma con un’atmosfera rilassata. Vedemmo un ottimo ma tetro film intitolato The Young Poisoner’s Handbook.
Compi sempre scelte libere e hai un approccio indipendente. Ti è costato?
Quando comincia un film non ci sono garanzie che funzionerà. È sempre un lancio di dadi. Specialmente quando il regista non ha molta esperienza, il che capita spesso nel cinema indipendente. Ma se il regista sta tentando di fare qualcosa di nuovo o unico vale la pena accettare la scommessa. Amo le sorprese che ne derivano, come ad esempio un personaggio che non avresti mai pensato di interpretare o un regista con cui non avresti creduto di poter lavorare. È questo che ti fa continuare a volerne di più.
A Locarno presenterai City of Ghosts, il primo film che hai diretto. Cosa significa per te quell’esperienza dietro la macchina da presa?
Fare quel film fu per me una rivelazione. Ci vollero sette anni. Così, nel momento in cui arrivammo sul set in Cambogia, non presi nulla per scontato. Apprezzai molto cosa ci volle per arrivare fin lì. Fa una grande differenza circondarti della gente giusta. Talvolta mi piace lavorare a briglie sciolte, aprirmi agli eventi inaspettati. Non c’è soltanto un modo giusto di fare le cose. Al contrario, ci sono un sacco di modi sbagliati. Io lo sento dentro quando è giusto, la chiave è non fare compromessi. Quello era il mantra del film. Avevo grandi attori come James Caan, Gérard Depardieu, Stellan Skarsgârd e Natascha McElhone, tutti professionisti esperti. Ma c'era anche un numero di attori non professionisti che nel film hanno prodotto grandi interpretazioni. Il mio obiettivo per loro era libertà totale.
Quali registi hanno avuto un’influenza particolare su di lei?
Ce ne sono molti. Alcuni con cui ho lavorato. Il cinema è un medium del regista. Penso che il lavoro migliore che ho fatto come attore sia con grandi registi come Francis Ford Coppola, Gus Van Sant, Lars von Trier e altri. Quando ho fatto City of Ghosts ho portato con me le esperienze fatte con i registi con cui ho lavorato. Andando avanti porterò con me l’esperienza avuta con Lars. Specialmente l’importanza del possibile fallimento nel lavoro. Quando ho fatto City of Ghosts volevo fare un film che fosse come i film che amavo. Qualcosa in cui avrei voluto recitare. House of Bamboo (1955) di Samuel Fuller è uno dei miei preferiti. Ho guardato molti film di Carol Reed. Outcast of the Islands (1951) è un film che Barry Gifford e io abbiamo visto mentre scrivevamo la sceneggiatura. Altri registi come Elia Kazan, Martin Scorsese, John Cassavetes e Werner Herzog mi hanno influenzato.
Cosa pensa della Hollywood di oggi?
Ho avuto grandi esperienze lavorando a Hollywood. Finché non diventi uno schiavo del business. È molto facile dire «odio Hollywood», ma “Hollywood” ha prodotto molti dei più grandi film di sempre. Sfortunatamente, sempre meno vengono proiettati sul grande schermo.
Mauro Donzelli