Guarda la Conversation con Alain Tanner, Pardo d'onore 2010
Difficile sovrastimare l’importanza che ricopre l’opera di Alain Tanner nel cinema elvetico. Il suo lavoro, nella sua ricchezza e singolarità, è la storia di un paese che, attraverso lo sguardo e la poetica, trova una posizione originale e singolare nell’ambito del nuovo cinema europeo e mondiale. Tanner, al di là delle formulazioni giornalistiche ad effetto come “il meno svizzero dei cineasti svizzeri”, che lasciano sempre il tempo che trovano, ha saputo raccontare le complessità e le contraddizioni di un paese ponendo le basi, di fatto, per quello che oggi è “una certa idea del cinema elvetico”.
Per inoltrarsi nei meandri di un’opera affascinante e complessa, probabilmente ogni spettatore custodisce un accesso privilegiato. E così, inevitabilmente, riemerge alla memoria il primo contatto con l’opera di Tanner. Il momento in cui il suo cinema si è presentato con forza inusitata alla percezione. Ognuno vanta almeno uno di questi momenti, inevitabilmente. Scoprire Une flamme dans mon coeur in un cinema di Zurigo fu un’autentica epifania cinefila. Il bianco e nero di Acacio de Almeida – presente a Locarno quest’anno con il suo magnifico Objectos de luz – avvolge una relazione erotica che lo sguardo di Tanner porta alla superficie con un’intensità a dir poco sconcertante. Un bianco e nero materico, che liricamente affronta con audacia inaudita l’imperio dei sensi. Questa volontà di essere sempre nel momento, affidandosi alla precisione di uno sguardo attento e curioso, quindi politico, fa del cinema di Tanner il luogo cui in cui confluiscono le urgenze di un’epoca che, in un film come Charles mort ou vif, presentato nel 2021 a Locarno in una magnifica versione restaurata, assumono le sembianze di un’opera chiave. Diventando manifesto.
Per Tanner il cinema era una questione che si poteva fare con poco. Bastavano cinque persone, come ricordava sovente con affetto militante (“a meno che non vogliate filmare la battaglia di Morgarten”). Il tentativo, riuscito e riaffermato nel corso di un intero percorso artistico ed esistenziale, di un cinema che si è sempre ripensato da capo. Poesia e invenzione. Nel suo libro Photogrammes, Renato Berta rievoca con grande affetto ed entusiasmo i primi passi di un cinema che – all’epoca – non esisteva, ancora, e che in fondo era anche il tentativo di un paese di trovare la sua voce e le sue immagini. Nel 2010, in occasione del Pardo d’onore, Tanner dichiara in conferenza stampa la sua condizione di cineasta svizzero in un paese la cui lingua non parla, evidenziando così la sua condizione di regista a parte. Forse addirittura di esule nel suo stesso paese. Questa “lateralità”, diventata poi paradossalmente centrale, caratterizza in fondo grande parte della sua opera. E nella brillante conversazione condotta da Serge Toubiana che inizia con la domanda riguardante la collaborazione con Bruno Ganz ne La ville blanche (con la luce proverbiale di de Almeida), Tanner evoca i “fantasmi”. Che è un modo per mettere per affrontare la questione del visibile e invisibile. “Non penso mai al pubblico ma a un solo spettatore: a mio fratello o a mia sorella, penso a un interlocutore, e gli chiedo solo un piccolo sforzo: di provare a venire verso di me, di non addormentarsi”.
Nel corso di una vita costellata di tanti film ammirevoli, Alain Tanner ha rilanciato quest’idea di un cinema che si può fare con “poco”. Il necessario per dare vita a una conversazione. Nell’immaginare i suoi film, Alain Tanner ha offerto un contributo unico per pensare un cinema calato nel mondo e nella modernità conservando sempre – a ogni costo – il suo dolce carattere alieno e renitente alle trappole del conformismo.
Giona A. Nazzaro