News  ·  03 | 08 | 2023

Pietro Scalia e il segreto per essere uno dei più grandi montatori di Hollywood

"Siamo al servizio della storia. Dobbiamo prenderla, capirla e metterci il cinema".

© Giovanni Mecati, acmesign

E poi arrivano gli elicotteri. Tra un Oscar improvviso e poi un altro, Michael Mann e Oliver Stone, Gus Van Sant e Bertolucci. Poi, gli elicotteri. Sono loro a far letteralmente decollare la sintesi perfetta di cosa significhi essere un montatore. Un grande montatore. Succede quando a Pietro Scalia, Visione Award Ticinomoda di Locarno76, chiedi che differenza passi tra montare Good Will Hunting e Black Hawk Down.

«Nessuna differenza. Sono due soggetti molto diversi, ma per il mio lavoro molto simili. In Good Will Hunting sono fondamentali i dialoghi, il loro ritmo, i dialetti degli attori. La sfida in montaggio è creare qualcosa di vero, che ti porti lì, tra loro e i loro discorsi. In Black Hawk Down invece la chiave è nell’azione, ma la missione è la stessa: portare lì lo spettatore, nel mezzo dell’azione. E “azione” non significa mostrare come sparano, ma avere paura di essere centrato da un proiettile. Essere lì, letteralmente, e vivere quell’esperienza».

 

Missione compiuta, in entrambi i casi

Montando Black Hawk Down è successo quando ho abbozzato la sequenza degli elicotteri che sorvolano la costa e entrano in città. Niente di definitivo, ma dovevo mostrare qualcosa a Scott. Ho preso il girato, messo insieme le mie scelte. Poi ho tolto gli elicotteri. Non le immagini, i loro effetti sonori. Ho messo qualcosa preso da Il quinto elemento di Besson, qualche suono alieno. Fine. Poco dopo Ridley mi ha detto che ai militari con cui avevamo girato sarebbe piaciuto vedere qualcosa. Gli abbiamo mostrato quella scena, e sono rimasti senza parole. “È incredibile, abbiamo la pelle d’oca, ci è sembrato di essere là, di nuovo”. Mancava il suono, il frastuono in cui sono immersi durante un’operazione come quella, ma era realistico. Vedendola così, hanno riconosciuto il momento in cui nella loro mente tutto tace, prima della guerra. Che era esattamente la domanda che si poneva Black Hawk Down: cosa significa essere un soldato? Quello».

 

Qual è il segreto?

L’equilibrio. Sicuramente è l’istinto della pancia, ma anche la sensibilità del cuore e la precisione dell’orecchio. Ritmo e ispirazione. Poi c’è tutta la parte tecnica, fondamentale; la mole infinita di materiale da gestire, gli effetti speciali, il suono, il colore. E il saper delegare, quindi saper comunicare. Io sono stato estremamente fortunato a trovare la bilancia perfetta.

 

Come si bilanciano Bertolucci e Spiderman?

Ci si lascia ispirare dal materiale a disposizione e dalla sensibilità di chi l’ha girato, con alla base il senso del dritto, e del dramma. Potrebbe sembrare strano, ma a me piace il cinema poetico. E ad ogni modo, noi, siamo al servizio della storia. Dobbiamo prenderla, capirla, e metterci dentro il cinema.

 

Quanto è dura vincere un Oscar a 31 anni, al secondo film?

È un lancio iniziale incredibile. All’epoca amavo il cinema di Oliver Stone, Salvador, mi piaceva quello e volevo lavorare con lui. Poi Claire Simpson (montatrice premio Oscar per Platoon, ndr) mi ha detto “ok, fai l’assisente”. In meno di cinque anni ero capo montatore di JFK. Ho avuto la fortuna di farmi trovare pronto. Poi è arrivato il sogno di lavorare con un maestro come Bertolucci che mi ha offerto il suo prossimo film, e Gus Van Sant, che mi ha chiamato perché adorava Bertolucci.

 

Poi Ridley Scott, con cui è nato un affiatamento particolare. Non è insolito nel cinema: Thelma Schoenmaker e Martin Scorsese, Verna Fields e Steven Spielberg.

Succede; ci si incontra, ci si capisce e soprattutto ci si riconosce. Facemmo tre film in due anni, pazzesco. Un ritmo insostenibile. Tutto è basato su un rapporto di fiducia totale, di generosità, di sentirsi in mani sicure. A tal punto da lasciare libertà creativa all’altro. Se la persona è quella giusta puoi lasciarla fare. La vera differenza, per chi fa il mio mestiere, la fa l’autore con cui lavori. Oggi non c’è più spazio tra i tentpole e le piccole produzioni; Il Padrino e Il Cacciatore non esistono più, il lavoro è più corporate e il final cut deciso da tante persone, non solo dal regista o dal montatore.

 

Pietro Scalia ha un film che lo scuote ogni volta che lo vede?

Raging Bull è un capolavoro, Il Padrino uno dei miei preferiti, ma il vero sogno sarebbe stato lavorare a Shining, con Stanley Kubrick. E poi Fellini, Antonioni, Fassbinder, Wenders. Tutti autori che hanno contribuito a costruire il mio cinema.

 

Ma come è iniziato tutto?

Non lo so, lavoravo bene con le mani. Non pensavo all’America, pensavo di tornare in Svizzera e lavorare in Europa. Poi il montaggio mi ha trovato. E io ho trovato il mio mestiere.