“Through a circle that ever returneth in / To the self-same spot”. Family Portrait, l’ipnotico lungometraggio d’esordio dell’artista e filmmaker americana Lucy Kerr, si apre con un’affascinante e vagamente sinistra citazione da The Conqueror Worm di Edgar Allan Poe, una poesia sulla mortalità umana e l’inevitabilità della morte. La regista che vive a New York si accosta sottilmente a tematiche simili, ma riesce in maniera ammirevole a trasformarle in qualcosa di intimo e personale, un’espolazione di quel tipo di dolore che si rivela così pervasivo eppure effimero. Girato in soli dieci giorni nella casa dei genitori della regista a Kerrville, Texas, Family Portrait segue la storia di una grande famiglia in una mattina estiva che sembra come nessun’altra. Il piano del giorno: una foto di gruppo. Il che dvorebbe rappresentare la forza dell’istituzione familiare e testimonia la virtuale assenza di conflitti al suo interno. La famiglia dovrebbe apparire in salute e prosperante, il dolore dovrebbe esse celato. Un ritratto familiare come strumento magico che lavora sulla negazione. Ma all’improvviso la madre scompare. Mentre una delle figlie inizia a cercarla, il resto della famiglia sembra resistere all’idea di ritrovarsi insieme per scattare la fotografia. L’ansia inizia a salire, il regno del simbolismo è in pericolo: la fotografia deve essere scattata. E dovrebbe esserlo nonostante la perdita, una morte quasi trascurata, il dolore zittito, il lutto negato. Quello che parte come una descrizione realistica di una famiglia che si adagia in una mattina estiva, gradualmente perde la presa su spazio e tempo. Questi si trasformano gradualmente in non-coordinate sospese e magmatiche, e il ritratto del titolo assume i contorni immateriali di un rituale enigmatico troppo difficile da celebrare. Sotto questo punto di vista, la citazione da Poe sembra suggerire qualcosa che va oltre le semplici parole, qualcosa con una sfumatura spirituale: un ciclo soffocante, un falso movimento, la vacuità di questo eterno ritorno. La Kerr – inserita nelle “25 New Faces of Indepenedent Film” dal prestigioso Filmmaker Magazine – rispolvera il suo background nella danza per dar forma alle sue intuizioni visive, realizzando movimenti sia della camera che dei personaggi dentro l’inquadratura come una coreografia in continua fluttuazione, fluida e instabile come la bolla della famiglia messa in scena. Il controllo formale della Kerr e la complessità del suo sguardo che galleggia sono notevoli nel descrivere questo gruppo di esseri umani, che continua ad agire come se fosse disconnesso dal mondo. Si tratta di una radiografia vivida intorno alla vuotezza delle loro azioni e delle parole, e in ultima istanza intorno al vuoto, il buco nero delle relazioni familiari.
Eddie Bertozzi