Nella scorsa edizione del Locarno Film Festival, Renato Berta ha presentato Mirage de la vie: Portrait de Douglas Sirk, una lunga conversazione audiovisiva tra Sirk e Daniel Schmid. Quest’anno la Piazza Grande ospita la proiezione di uno dei capolavori di Schmid, anch’esso fotografato da Berta: La Paloma, del 1974, radicale ed appassionante allo stesso tempo.
La didascalia “C'era una volta...” dopo i titoli di testa può essere fuorviante: non è un film per bambini. E non è nemmeno ambientato in un’epoca indefinita: a un certo punto sentiamo accennare alla morte di Evita Perón, avvenuta nel 1952.
L'incipit è un quarto d’ora abbondante senza dialoghi, solo sguardi e volti misteriosi. Cinema al quadrato, fatto di canzoni d’altri tempi e sinuosi movimenti di macchina senza stacchi. E quando poi è il montaggio a farla da padrone, è tutto un florilegio di aperture e chiusure a iris, mascherini binoculari, dissolvenze. Come a riallacciarsi all’infanzia del cinema e alla sua adolescenza.
È un film solo lontanamente ispirato alla La signora delle camelie, il romanzo di Alexandre Dumas figlio. In una delle scene iniziali, nel camerino della cantante di cabaret Viola, la “Paloma” del titolo, tra le locandine alle pareti compare proprio quella del film (La signora delle camelie, appunto) che Carmine Gallone girò nel 1947, con le musiche di Giuseppe Verdi. La Traviata, celebre opera del grande compositore, infatti, è proprio il libero adattamento per il teatro lirico del classico di Dumas. Questo dettaglio del film di Schmid non è semplicemente un gioco di omaggi, ma ne determina le coordinate, all'insegna di un anti-realismo che rivoluziona il cinema svizzero.
Del libro di Dumas, Schmid conserva soprattutto l’elemento tragico della malattia che affligge la protagonista. La Paloma, invece, abbonda di musica colta e contiene perfino un duetto, sullo sfondo delle montagne, a sancire il rafforzamento della relazione tra Viola e l’uomo che la ama, ben poco ricambiato, quasi per tutta la vita, Isidor.
Spicca, nel ruolo principale del cast, Ingrid Caven, la musa di Fassbinder. La sua è un’interpretazione che non può lasciare indifferenti. Viola in ogni sequenza ha un look differente, si cambia d’abito continuamente, come Audrey Hepburn in Due per la strada. Attraversa il film in uno stato febbrile che sconfina nel fantasmatico. E, in alcuni passaggi chiave, appare esattamente nei panni di uno spirito.
Rievocata dal ricordo di Isidor, la presenza di Viola è intermittente: c’è e non c’è, e quando c’è sembra sempre con la mente altrove. È l’impalpabilità dell’eterno femminino.
La raffinatezza della regia del compianto Schmid, al suo secondo lungometraggio dopo l’esordio con Questa notte o mai del 1972, la maturità e la potenza dello stile si manifestano in ogni particolare della messa in quadro e della messa in scena, dai costumi alle scenografie.
Tra le case di produzione del film, figura Les Films du Losange, la storica “company” fondata da Barbet Schroeder, che è tra gli ospiti del Locarno Film Festival di questa edizione.
Francesco Grieco