News  ·  07 | 08 | 2023

Simone Bozzelli sul simbolismo in Patagonia

Abbiamo parlato del casting degli attori e di come Patagonia sia nato da un'esperienza personale.

© Claudia Sicuranza

Girato il 16mm nella campagna dell’Abruzzo, in Italia, Patagonia, nel Concorso internazionale a Locarno76, segna l’esordio alla regia di Simone Bozzelli, autore di corti apprezzati come Giochi, presentato nel 2021 a Locarno nella sezione Pardi di domani. 

 

Com’è nato questo esordio dopo alcuni cortometraggi? 

Ogni volta che ho avuto un’idea per una storia l’ho sempre pensata in grande per essere un potenziale lungo, poi all’inizio è bene fare pratica in una dimensione più piccola. Patagonia è nato da un’esperienza personale. Poi, assieme al mio sceneggiatore abbiamo trovato degli argomenti narrativi per sviluppare la storia del film e che potessero metaforizzare quel sentimento. 

 

Il suo è un cinema di personaggi, di sensibilità. Come ha lavorato con il protagonista, a cui la macchina da presa sta sempre molto vicina? 

La parte che mi piace di più nella costruzione di un film, insieme al montaggio, è la ricerca degli attori. Sono andato nei luoghi con un casting director a cercare prima questi volti e poi queste energie. Mi piace sempre mischiare attori professionisti e non, per creare un’atmosfera in cui io in prima persona mi trovi a mio agio, costituita da persone con cui voglio passare del tempo. La vicinanza con la macchina ai personaggi è nata dal basso budget per le scenografie dei cortometraggi; quindi, l’unica cosa che potevo fare era puntare tutto sugli attori, nascondere quello che non era “scenografato”. 

 

La Patagonia del titolo rimanda a una speranza, a una possibilità di uscire da una quotidianità che sta stretta? Come nasce quell’immaginario e una canzone che ritorna nel film e ne canta le lodi? 

Il titolo Patagonia è nato proprio da quella canzone, che è stata importante per me in una relazione. Ma mi piaceva il fatto che diventasse un riferimento anche geografico, non sapendo nulla della Patagonia, se non che si chiama anche Terra del Fuoco, perché quando la scoprirono, come si dice nel film, c’erano dei grandi falò accesi, perché lì fa freddissimo. Mi piaceva l’idea di un posto che si idealizza non conoscendolo e proprio per questo non ha confini, anche se magari poi è una gabbia. Che poi forse si può stare bene anche in una gabbia. 

 

Il camper in cui il protagonista si trova a passare dei giorni sembra inizialmente un luogo di libertà, poi però diventa anch’esso una gabbia. 

L’idea era di creare un ambiente un po’ gipsy, fatto di camper e assenza di radici, di una relazione o di un posto fisico che possa essere una casa. Mantenendo sempre una via d’uscita a quattro ruote o emotiva. Mi interessava parlare di una relazione soffocante in un luogo totalmente anarchico come quello di un rave party, in cui tutto è permesso e tutti sono ben accetti. Mi piaceva questo contrasto claustrofobico. 

 

C’è una frase che Yuri dice: «mi sento sempre in punizione, non so mai cosa ho fatto di sbagliato». Può rappresentare una specie di manifesto di questo personaggio, della sua marginalità quasi inconsapevole? 

Mi piace raccontare personaggi che vivono l’esperienza dell’innamoramento o del desiderio, che però crollano sotto il peso dell’amore. Perché danno all’altro il completo potere, anche del loro stare bene o male. È sempre pericoloso, ma per me sempre estremamente affascinante, vedere fino a dove si può arrivare. 

 

Nel film ci sono molti simbolismi, per esempio gli animali, a cui Yuri si avvicina, magari per non dover comunicare a parole. 

Anche nei miei corti sono molto presenti gli animali. Ho sempre avuto una grande tenerezza nei loro confronti. Uno dei primi ricordi che ho da piccolo sono dei compagni di classe che punzecchiavano con degli aghi di pino una corteccia per ammazzare le formiche. Mi ricordo di avere pianto per una settimana dopo aver visto la scena. Mi distruggeva il fatto che delle persone facessero del male per gioco a un essere così indifeso. Parlando di tutto questo mi viene in mente quello che Yuri subisce e la tenerezza che ho nei suoi confronti, ma anche dell’altro protagonista Agostino. C’è una frase de Il nastro bianco, un film che amo moltissimo, in cui uno dei personaggi dice «devi soffrire tanto per essere così cattivo». Anche dietro quella perfidia si intravede una sofferenza, ed è giusto metterla in scena, in un film che parla di questo.  

 

Mauro Donzelli