Dopo l’exploit di Matter out of Place, documentario dell’austriaco Nikolaus Geyrhalter che ha vinto il Pardo Verde 2022, con Voyage au pôle Sud di Luc Jacquet il Locarno Film Festival torna a ospitare un film che analizza la relazione purtroppo instabile, disequilibrata tra uomo e ambiente. Il regista de La marcia dei pinguini col suo ultimo lavoro cambia però totalmente registro, e con delle meravigliose immagini in bianco e nero si concentra su questo rapporto con un’ottica che potremmo definire “esistenzialista”. Una relazione, quella fra uomo e ambiente, che il cinema ha esplorato nel corso degli anni attraverso titoli di grande spessore cinematografico, a partire da quel Nanuk l'esquimese (1922) di Robert J. Flaherty, che rappresenta uno dei capostipiti del genere. Che siano i ghiacci polari o luoghi ancora inesplorati del nostro pianeta, le ambientazioni in cui l’essere umano non è ancora riuscito a imporre il suo “civile dominio” hanno attratto negli anni moltissimi grandi cineasti, disposti a mettere in scena tale confronto esplorando i limiti fisici e mentali non soltanto dei personaggi ma anche i propri. Pioniere di questo tipo di cinema ai limiti dell’esperienza umana e artistica è stato senza alcun dubbio Werner Herzog, il quale, con capolavori come Aguirre, furore di Dio (1972) o Fitzcarraldo (1982), ha canonizzato un tipo di esperienza artistica che impone un duello quasi ideologico tra regista e ambiente, con il film stesso che diventa metaforicamente arma del primo, almeno finché non gli scivola di mano per diventare strumento di rivalsa dell’altro. Il dominio del cosiddetto “autore” sulla natura intesa come teatro della realtà dentro cui imporre la propria visione è stato poi portato a estreme conseguenze da Francis Ford Coppola: il cineasta, reduce dall’Oscar per la regia de Il padrino – Parte II (1974), fece propria – leggete pure ignorò – la lezione di Herzog e forzò i limiti della sopportabilità umana durante la lavorazione di Apocalypse Now, ripagato presto dalla consapevolezza di aver realizzato uno dei film più importanti della storia del cinema americano e internazionale.
Un altro elemento fondamentale nel confronto uomo/natura adoperato dal cinema (soprattutto) americano per rappresentare il lato più nero dell’essere umano è senz’altro il bianco della neve. Simbolo di innocenza e purezza, essa è invece diventata metafora disturbante dell’alienazione dell’individuo. Imposta o voluta che sia. Pensiamo al Corvo rosso non avrai il mio scalpo! (1972) di Sydney Pollack, western revisionista in cui il protagonista, interpretato da Robert Redford, si ritirava lontano dal gioco crudele della società perché deluso dalle sue regole e dai suoi giocatori. Se pensiamo che il western è stato il genere fondante dell’epica del cinema americano, il discorso ideologico di questo cult-movie diventa ancor più importante. Più recentemente i fratelli Coen hanno adoperato le distese di ghiaccio e neve che circondano Fargo (1996) per rappresentare la disconnessione umana di personaggi tanto assurdi quanto violenti. Come ultimo baluardo di un mondo che ormai stenta a ritrovare l’appoggio della logica e della morale resiste solo una magnifica Frances McDormand nel ruolo del poliziotto protagonista. Arrivando ancor più vicino ai nostri giorni Taylor Sheridan ha adoperato le riserve innevate dei nativi americani per il suo potente esordio da regista I segreti di Wind River (2017), portando ancor più avanti il discorso esistenzialista di Fargo ma senza la valvola di sfogo dell’ironia stilizzata dei fratelli di Minneapolis. Risultato? Un discorso a suo modo radicale sulla fragilità dell’essere umano e sulla sua idea di civiltà, soprattutto quando questa stessa viene costretta dentro prigioni tanto geografiche quanto mentali.
Adriano Ercolani