Ci sono film che agiscono come sortilegi, usando il potere del cinema – la sua capacità di reiventare le possibili realtà – per rompere incantesimi a cui siamo (o siamo stati) soggetti. Non è un caso che fin dalle prime immagini appaia lo strumento magico, un disco, che al contempo riporta una data storica precisa, il 1990, e l’atto attraverso il quale il tempo potrà essere liberato, lo scratchare avanti e indietro lungo i cerchi dell’incisione. La musica si trasformerà in rumore, sgradevole da principio, ma altre orecchie sapranno trasformarlo in musica e iniziare nuove danze.
Si viene catapultati nella trappola degli agiati anni Novanta: genitori irretiti dall’edonismo per lenire le ferite politiche del passato, adolescenti cresciuti nell’agio a cui rimane solo l’esplorazione del proprio desiderio come unica forma di rivolta in un tessuto sociale distrutto. Così si uniscono le storie di Nazzarena (un’intensa Margherita Morellini), sociopatica che attenta la vita del Vescovo amico di famiglia, Alfonso (un vibrante Leonardo Giuliani), ragazzo che non può reprimere la sua omosessualità di fronte a un padre democristiano, Marzia (l’esuberante Ludovica Rubino), pronta a diventare una delle baby dive di Non è la RAI possedendo il desiderio più di quei “papi” pronti a dominarla, e Vittoriano (un ineffabile Luca Varone), che raccoglie il trauma collettivo di una generazione che ha visto sostituirsi gli affetti e i rapporti umani con la merce da consumo. Il loro agire nel presente è limitato ad esercizi di controllo del loro sé in una casa di rieducazione per ragazzi alto borghesi, il loro passato continua a travolgerli gettandoli in un oceano di emozioni contrastanti, il loro unico nemico sembra quel “padre” che ritorna con diverse sembianze ma nel corpo di un unico attore, a simboleggiare un’Italia pronta a cadere nella trappola del controllo berlusconiano.
Dopo aver affrontato un tema dibattuto come i brigatisti fuoriusciti dall’Italia in seguito alla lotta armata (Dopo la guerra, presentato a Un Certain Regard a Cannes nel 2018), Annarita Zambrano continua a inventare un nuovo cinema politico, mettendo in scena l’unica sovversione rimasta alla generazione X, quella che oggi è sfociata nella liberazione dei corpi e nelle lotte LGBTQI, ma il film non si ferma qui. La ribellione passa attraverso la scelta di reinventare la narrazione cinematografica, liberandola dall’usuale realismo per andare incontro a momenti grotteschi che si aprono a squarci di lirismo quando la gabbia di una tigre è ricreata dalla pura luce, simbolo di qualcosa da cui è molto difficile evadere non eclissandosi nel buio.
Daniela Persico