L’edizione di quest’anno de L’immagine e la parola – a cura di Giona A. Nazzaro e Daniela Persico – si intitola “Noi e gli altri” e si ispira apertamente alla sua opera. In Nous (2021), lei dà una dichiarazione d’intenti memorabile: «preservare l’esistenza di vite ordinarie che sarebbero scomparse senza lasciare tracce se non le avessi filmate». Allo stesso tempo, viviamo in un’epoca caratterizzata dall’ipervisibilità dei social media e dalla produzione massiccia di immagini. Come situa il suo lavoro in una realtà come quella contemporanea in cui ci sono così tante cose da vedere?
Certo, sono una regista che produce immagini all’interno del regime delle immagini che ci circonda, ma per me, a dire il vero, non tutte le immagini sono uguali. Le immagini che restano sono quelle che noi stessi creiamo, che percepiamo, che teniamo come punti di riferimento, che ci permettono di “vedere” il mondo o di trasformare la maniera in cui lo vediamo. I social network non mi convincono affatto. Non ho Facebook né Instagram. Non posso dire che la mia sia una scelta politica consapevole, ma credo che mi permetta di mantenere una forma di innocenza a riguardo e una certa consapevolezza sull’importanza di un’immagine.
Faccio cinema nella folle convinzione che mostrare e mettere in scena le persone comuni abbia un’importanza politica. Si tratta di persone che nessuno si aspetta di vedere sullo schermo, che nessuno ha visto prima, che nessuno conosce o sta cercando, e mostrarle sullo schermo, e di fatto costruire un intero dispositivo, una messinscena, un discorso che ruoti attorno all’idea di farli apparire in un’immagine, è qualcosa di potente. Credo di farlo in opposizione a quest’altro genere di immagini che ci inondano e che confondono la nostra percezione e la nostra visione. Le immagini dei film che restano con me sono immagini potenti che si rivolgono a me e che resistono alla cancellazione e all’oblio. Quando sei sommerso dalle immagini, non riesci più a vedere nulla. Penso che il cinema sia il contrario dell’immagine: è una somma di immagini e una forma di resistenza davanti alla crescente incapacità di guardare.
In vista della sua visita qui a Locarno, il nostro team di ricercatori SNSF e i nostri studenti hanno realizzato alcuni video essay per studiare a fondo i suoi film. In quanto creatori di video-saggi, siamo particolarmente interessati alla sua decisione di includere nella sua opera frammenti sia di film che hanno fatto la storia del cinema, sia di filmati amatoriali. In che modo il riutilizzo di questi estratti è entrato a far parte del suo lavoro e che cosa le permette di ottenere nei suoi film che non sarebbe possibile fare diversamente?
In Nous e in Saint Omer (2022), l’utilizzo e la presenza di materiale d’archivio e di frammenti di altre opere ricoprono funzioni molto diverse. In Nous, si trattava di materiale che non avevo potuto vedere prima, proveniente da un archivio personale che raccoglie le sole tracce che restano della vita dei miei genitori – una documentazione molto scarsa. Avevo già dedicato a mio padre il mio primo film di diploma, un cortometraggio di 15 minuti; perciò, ero già consapevole dell’importanza e della necessità di conservarne le tracce nel mio lavoro. Del resto, sono ossessionata dalla questione delle tracce e dal bisogno di registrarle. In questo modo, le persone che in precedenza non sono state filmate o guardate non possono scomparire. In Nous, l’idea era quella di costruire un racconto e un progetto a partire dalle poche tracce rimaste dell’esistenza di mia madre, e di conferirle uno statuto mitico che andasse oltre l’archivio personale di cui sono in possesso. Era un modo di proporre una riflessione più globale sulla nostra memoria collettiva, la quale tende a trascurare piccole vite come questa, vite a cui le persone non si interessano, e insieme di ragionare sul deficit di memoria delle persone che non stanno guardando. Perciò si tratta di un progetto che è al tempo stesso politico e molto personale, che si fonda su una ferita che mi porto dietro e che ha origine nella sofferenza di non essere riuscita a salvare alcuna traccia significativa dell’esistenza dei miei genitori – dei quali ho molte poche foto, pochi video. Per me, questa ferita si lega a doppio filo con il tema politico di chi ha diritto al racconto, di chi lascia una traccia e di chi invece finisce confinato in un archivio. Si tratta di questioni molto dibattute in Francia in questo momento.
In Saint Omer, invece, è tutt’altra cosa. Qui ho voluto – consapevolmente o meno – rifarmi a Marguerite Duras o a Pier Paolo Pasolini, ossia inscrivere i corpi in una continuità, in una sorta di tradizione cinematografica dove la presenza dei corpi neri era assai limitata, se non del tutto assente, e così facendo dare loro quasi una dimensione mitologica: rinviare a Pasolini e alla storia di Medea, significa anche allontanarsi dalla cronaca e permettere ai corpi neri di dire qualcosa di universale. Affermarlo implica per me anche una presa di posizione politica.
Nell’ambito de L’immagine e la parola terrà una masterclass e un workshop con giovani registi su come lavorare con gli attori nella creazione di protagonisti. In che modo la sua formazione in sociologia visuale e il suo approccio documentario alla produzione filmica influenzano il suo stile di regia nei film di finzione (per quanto riguarda il casting, la direzione degli attori, il soggetto)?
Mi rendo conto che la mia pratica cinematografica è influenzata non solo dai documentari – in altre parole, da un tipo di approccio che esplora la realtà – ma anche dai miei studi di scienze umane e sociali, in particolare sociologia visiva, sì, ma anche storia. Lo vedo con chiarezza ora, mentre sto lavorando al mio prossimo film che riguarderà la storia coloniale. L’approccio accademico, che deriva dal mio retaggio di sociologa e storica, attraversa il mio lavoro di documentarista, il che significa che attingo molto alla realtà, alle foto, agli archivi. Allo stesso tempo, trasformo questa ricerca attraverso l’uso della finzione e del corpo degli attori: in questo modo non si tratta solo di documentario, ma di una pratica che mescola diversi punti di riferimento. Me ne rendo conto ora, essendo nel vivo del lavoro: per un anno ho svolto ricerche negli archivi, insieme a ricercatori specializzati in storia coloniale. Utilizzo le risorse documentarie (come foto, archivi, ecc.) come punto d’appoggio per scrivere la sceneggiatura di un film di finzione, convertendole in drammaturgia, in narrazione.
Con Saint Omer è valso lo stesso principio. È un film basato su questioni politiche derivanti dalle mie riflessioni su società francese, epoca coloniale, posizione delle minoranze, violenza e razzismo sistemici – tanto per usare termini che derivano senza dubbio dal vocabolario accademico. Tutte queste tematiche mi attraversano, e io le affronto con un approccio quasi da ricercatrice. È come se conferissi loro una forma che, attraverso il cinema, assume uno statuto estremamente sensibile. Tutto parte fondamentalmente con questa intenzione. Per me, il cinema è una modalità attraverso cui rendere tangibili delle questioni che da anni mi tengono impegnata da un punto di vista teorico e intellettuale. Attribuisco loro una forma cinematografica tramite il corpo degli attori, a cui non chiedo (neanche in Saint Omer, la mia prima opera di finzione) di interpretare un ruolo; piuttosto, lavoro all’interno della permeabilità tra la persona documentaria e l’atto d’interpretazione del personaggio. Mi muovo sempre entro questi due poli, e sono convinta che la scelta degli attori si fondi sull’intuizione della connessione profonda tra la persona in quanto tale e ciò che chiedo di interpretare.
All’università utilizziamo anche le tecniche di embodiment per studiare i suoi film. La sua modalità di rappresentazione dei corpi sullo schermo è potente, in particolare in Vers la tendresse e Saint Omer. I suoi film ci incoraggiano a guardarli da vicino per capire come i nostri stessi corpi occupano lo spazio, ci mettono di fronte alla nostra visione degli altri. In che misura il suo sguardo è consapevole di sé? Quali sono i pensieri che la attraversano quando inquadra un corpo?
È curioso perché dipende dai film. Posso parlare per Saint Omer, dal momento che è l’esempio più recente. Per me, la questione dell’embodiment è profondamente connessa con la dimensione politica intrinseca alla rappresentazione dei corpi in uno spazio, in un medium, entro cui finora non sono mai stati osservati in questo modo. Per esempio: i miei punti di riferimento in Saint Omer, più che film, sono stati dipinti, in particolar modo quelli del Rinascimento italiano, di Tiziano, o un quadro che avevo appeso, La Belle Ferronnière di Leonardo Da Vinci. Ero profondamente consapevole del fatto che il mio dovesse essere un cinema di risarcimenti, che ponesse certi corpi al centro dello sguardo come mai prima. E per me Saint Omer è un caso emblematico: è eminentemente politico. Vale a dire che questa donna nera che nessuno ha mai visto è al centro dell’immagine, e l’inquadratura è costruita come un dipinto. Per me il piano sequenza è stato un atto politico che ha racchiuso tutto ciò che mi ha portata a comporre quell’immagine. Non si tratta di una riflessione puramente estetica, ma racchiude anche una dimensione politica: ovvero la messa in discussione dell’assenza di raffigurazione di questi corpi durante tutta la storia della rappresentazione, da Giotto ai giorni nostri. Se si visitano i musei di tutto il mondo, questi corpi non esistono. Così come non esistono nel cinema – con questa forza politica – senza essere feriti, disprezzati e sminuiti dal nostro sguardo. In Saint Omer prendono la scena, e sono osservati con la stessa potenza visuale di un quadro rinascimentale. Dedichiamo tempo a osservare e ascoltare una donna nera anziché una donna bianca. Per me, la questione della rappresentazione, dell’immagine, è inscindibile dalla riflessione politica sull’assenza di questi corpi e delle loro raffigurazioni e su ciò che questo produce su di noi – me in quanto donna nera, ma noi in quanto spettatori. Cosa significa aver composto nell’assenza di questi corpi? Quale ne è stato l’esito? Come può il cinema porvi rimedio e cosa può dirci di questa riparazione, dal punto di vista estetico?
Come è arrivata a concepire l'ascolto come un tema e un metodo centrale del suo cinema e quali sono state le sfide che ha dovuto affrontare per convincere il pubblico ad ascoltare? In che modo ha negoziato (forse con se stessa) lo spazio per far emergere la sua voce, ad esempio in Vers la tendresse?
Si tratta più di una questione di narrazione, di restituzione della peculiarità di questi personaggi proponendo una connessione estremamente intima con persone, caratteri, individui sottorappresentati. In altre parole, offrire agli spettatori la possibilità di incontrarli in una sorta di dialogo intimo, e di prendersi il tempo di ascoltare la storia e la singolarità di tutti i personaggi – in un certo senso, ripristinare la loro singolarità ascoltando le loro vite in modo estremamente intimo. Così, è anche grazie alla profonda connessione che riesco a creare con queste persone che queste possono farmi dono di qualcosa di estremamente prezioso: ovvero un accesso molto intimo alle loro vite, basato sulla fiducia dell’incontro che abbiamo creato insieme. Ho l’impressione che in questi film io assuma il ruolo di mediatrice, in virtù di questa possibilità di ascoltare l’intimità degli altri. Essendo connessa alla loro intimità posso a mia volta darne accesso agli spettatori. Ciò implica la necessità di essere molto presenti: queste persone mi parlano perché sono riuscita a instaurare un rapporto con loro, e se mi offrono un dono così prezioso è proprio grazie a questa relazione profonda. Poi, a partire da ciò che mi danno, io dono di rimando agli spettatori un accesso intimo alla singolarità di queste vite, che difficilmente avrebbero incontrato altrimenti. Questa pratica si realizza attraverso la voce, attraverso la non rimozione del mio coinvolgimento nel processo.
Lo studio approfondito del suo lavoro ha incoraggiato i nostri studenti a scoprire altri film. Quali sono i film o i registi con i quali ritiene che la sua opera dialoghi maggiormente, e che perciò consiglierebbe?
Il primo nome che mi viene in mente è forse quello di Pedro Costa. So per certo che un film come Vitalina Varela (2019) ha avuto un grande impatto su di me e mi ha aiutato molto a scrivere Saint Omer, anche se i due film sono veramente molto diversi. Poi, ho appena ricevuto il cofanetto di un regista che ho scoperto recentemente e che si chiama Michael Roemer – un autore straordinario –, e in realtà ho preso parte a un contenuto bonus per il DVD del suo primo film, Nothing But a Man (1964), ambientato in Alabama nei primi anni Sessanta. È un film con Abbey Lincoln, che mette in scena sia veri attori sia non professionisti. Credo che nel caso di Lincoln si tratti del suo primo film, visto che allora era più che altro una cantante jazz. È un film magnifico sulla condizione dei neri americani come non ne ho visti prima, perché è così preciso nell’osservare attentamente la vita di questa comunità, pur mantenendo una forma del tutto finzionale. È un film di quasi sessant’anni fa che mi piace molto e che continua a ispirarmi.
Per quanto riguarda opere più recenti, come ho detto c’è Pedro Costa. Provo anche una grande vicinanza con El Pampero Cine, il collettivo di cineasti argentini – Laura Citarella con Trenque Lauquen (2022) o Mariano Llinás con La flor (2019), che mi hanno entrambi ispirato. E poi Lucrecia Martel, Kelly Reichardt, Claire Denis. Insomma, sono queste le persone di cui non vedo l’ora di vedere i film e la cui riflessione personale sulla creazione cinematografica influenza profondamente il mio stesso lavoro.