Di Hugo Emmerzael
Tradotto da Tessa Cattaneo
Due decenni dopo aver proiettato il suo lungometraggio d’esordio The Twilight (Gagooman, 2002) a Locarno, il celebre regista iraniano Mohammad Rasoulof ritorna al Festival per presentare in Piazza Grande il suo nuovo film, The Seed of the Sacred Fig. Il cineasta dissidente ha recentemente deciso di fuggire dal suo Paese natale, l’Iran, per evitare una condanna a otto anni di reclusione per “intenzione di commettere un crimine contro la sicurezza nazionale”. Quest’ardua decisione costituisce solo l’ultimo capitolo della complessa e tempestosa relazione che il regista ha con il regime totalitario del suo Paese, un regime che aveva già vietato a Rasoulof di continuare a esercitare la sua professione quando il suo film Goodbye (Be omid-e didar, 2011) fu presentato nella sezione Un Certain Regard a Cannes.
Il film, che racconta la storia di un avvocato a cui il governo ha revocato la licenza, era una sottile metafora su come gli artisti iraniani fossero stati costretti al silenzio e alla conformità. Come altri dissidenti, tra cui Jafar Panahi, Rasoulof è riuscito a lavorare, nonostante le restrizioni, e creare alcune delle opere più significative del cinema iraniano contemporaneo. Avvolti nel mistero e girati clandestinamente con permessi falsi, i suoi film successivi a questo divieto sono un duro attacco contro il regime autoritario del Paese.
Basti pensare a Manuscripts Don't Burn (Dast-Neveshtehaa Nemisoozand, 2013), un thriller glaciale che documenta il tentativo fallito da parte del regime di liquidare degli scrittori iraniani dissidenti, in cui la rabbia e la melanconia di Rasoulof sono quasi palpabili. Ancora più eloquente è il suo film seguente, A Man of Integrity (Lerd, 2017): una ferma denuncia alla corruzione dilagante nel Paese, superbamente interpretato dall’attore protagonista Reza Akhlaghirad. Il film ebbe gravi conseguenze per Rasoulof: gli costò il divieto di viaggiare per un anno e una condanna a un anno di prigione, pena che scontò nel 2019. Dopo questa esperienza, invece di arrendersi Rasoulof realizzò una delle sue opere più toccanti: There Is No Evil (Sheytân vojūd nadârad). Vincitore dell’Orso d’oro nel 2020, questo film-mosaico esplora il dilemma morale legato alla pena di morte in Iran.
Se There Is No Evil, che Rasoulof ha dichiarato essere ispirato alle sue esperienze personali, è pervaso da una melanconica introspezione, The Seed of the Sacred Fig (Daneh Anjeer Moghadas) esprime la sua irrefrenabile rabbia e disperazione.
Ispirato dalle proteste del 2022, scaturite dalla morte di Mahsa Amini, uccisa mentre era in custodia della polizia per essersi opposta all’obbligo di indossare l’hijab, l’ultimo film di Rasoulof illustra come l’energia propulsiva della dissidenza si scontra con la rigida struttura del regime. Il regista traspone il conflitto in una piccola unità familiare, dove il padre, un ufficiale del governo, vede diminuire il suo potere e controllo sulle due figlie. Nelle mani di Rasoulof, il dramma familiare si trasforma in un thriller mozzafiato che incarna tutta l’ira e l’angoscia della società iraniana.
Prima di arrivare a Locarno, il cineasta iraniano ha parlato al Pardo da un luogo non specificato in Germania, condividendo riflessioni sulla sua opera, la sua vita e le sue speranze per il futuro.
Sono consapevole delle ferite aperte dentro di me, mie e di tutti gli artisti iraniani che lavorano nelle mie stesse circostanze.
Hugo Emmerzael: La tua fuga fortuita dall’Iran immediatamente dopo la tua sentenza e il tuo arrivo a Cannes hanno avuto un grandissimo impatto sul mondo del cinema. Tutto questo è successo già alcuni mesi fa, quindi ho una domanda molto semplice e al contempo difficilissima: come ti senti ora?
Mohammad Rasoulof: Non è facile per me rispondere a questa domanda. Credo che comprenderlo sarà un processo molto lungo, soprattutto perché molte cose stanno ancora accadendo. Ho l’impressione che tutto sia distante e mi sento un po’ perso nel cercare di valutare tutto ciò che è accaduto. Penso di aver bisogno di molto più tempo e distanza per capire veramente e processare quanto è successo nel suo insieme. Ora come ora provo felicità e gratitudine per essere riuscito a completare questo film. Allo stesso tempo, sono preoccupato e triste per i miei amici e collaboratori, che si trovano ancora in una situazione difficile. Sono in balia di questi sentimenti contrastanti.
HE: Il fatto che tu sia riuscito ad arrivare a Cannes è stato sulla bocca di tutti, suscitando un grande interesse anche per il tuo film. Posso immaginare che questo abbia attirato l’attenzione non solo su di te ma anche sui tuoi collaboratori in Iran. In che modo il tuo grandissimo successo al festival ha influenzato le reazioni nel tuo Paese d’origine?
MR: Non appena la notizia della selezione a Cannes è stata resa pubblica, le autorità hanno iniziato a mettere sotto pressione i miei collaboratori, sia gli attori che i tecnici. Sapevano esattamente chi avesse partecipato al film e hanno esercitato pressioni su tutti. L’ufficio del mio direttore della fotografia, per esempio, è stato attaccato, e tutti i membri del cast e della troupe sono stati interrogati, esigendo che io ritirassi il film da Cannes. I miei collaboratori hanno rifiutato di farlo. Il momento di maggior tensione, però, l’abbiamo vissuto quando eravamo già a Cannes. Sono stati giorni difficili, durante i quali hanno tentato di tutto pur di farci ritirare il film. È stata avviata un’indagine contro tutti noi e contro coloro che sono rimasti in Iran. Fortunatamente, tutto ciò appartiene al passato ora, ma non possiamo far altro che aspettare. Non sappiamo ancora quando avrà luogo il processo né quale sarà il prossimo passo di questa procedura penale contro la troupe.
HE: Dev’essere stata un’esperienza molto dolorosa ed esasperante. In quale misura lasci che queste emozioni diventino parte del tuo processo creativo? Diresti che ti lasci trasportare dalle emozioni, o provi a frenarle mentre fai i tuoi film?
MR: Provo decisamente moltissima rabbia, così come tristezza e disperazione Questi traumi non derivano solo dalla mia esperienza personale come regista, ma anche dalla società in cui vivo. Sono consapevole delle ferite aperte dentro di me, mie e di tutti gli artisti iraniani che lavorano nelle mie stesse circostanze. Tuttavia, ho sempre cercato di trasformare questa rabbia in bellezza; descrivendo, osservando e condividendo la bellezza che vedo nei paesaggi iraniani e negli esseri umani. Questo è ciò che posso tenere stretto. Il mio atteggiamento e metodo creativo sono sempre orientati a risolvere problemi, ad aprirsi a livello personale, e spero di condividere queste emozioni con gli spettatori. Trasformare la rabbia in bellezza, credo sia il modo migliore per descrivere il mio processo creativo.
Con il tempo, però, ho capito che questo linguaggio metaforico era anche un modo per cedere alla censura, evitando di affrontare esplicitamente argomenti che avrebbero irritato le autorità.
HE: Sono contento che tu abbia menzionato i paesaggi iraniani, perché gli ambienti naturali giocano un ruolo centrale nella tua opera. Si potrebbero quasi definire come degli altri personaggi o trame nei tuoi film. In Manuscripts Don't Burn, A Man of Integrity, e There Is No Evil, sono carichi di significati simbolici. Come interpreti questa relazione tra i paesaggi naturali e i tuoi film?
MR: Prima di tutto, ho una connessione profonda e significativa con la natura e i territori incontaminati. Sono dei luoghi in cui mi sento sereno. Cerco di allontanarmi dalla città il più spesso possibile, anche quando lavoro ai miei film, li scrivo e penso a come metterli in scena. Preferisco trascorrere questi momenti immerso nella natura piuttosto che in un ambiente urbano. Sono sempre mosso dal desiderio di mostrare la bellezza del mio Paese nei miei film. Devo ammettere che allontanarmi dalla città è anche un modo per sfuggire alla censura e alla sorveglianza. Questo si vede anche nel mio lavoro: tutti i film che hai menzionato iniziano in città e poi si spostano verso la natura. Dobbiamo fuggire dalla città verso luoghi dove è più facile lavorare.
HE: In The Seed of the Sacred Fig il panorama sembra ancor più ricco di simbolismo, soprattutto nell’intensa scena finale, durante la quale i personaggi letteralmente si perdono tra le rovine.
MR: Per me, quel sito naturale è una metafora dell’Iran. C’è tutta questa bellezza, eppure è una rovina.
HE: Mi sembra che allegorie e metafore siano diventati aspetti sempre più centrali nel tuo cinema, pur mantenendo una forma implacabile di realismo. Come vedi questa dinamica tra realismo e metafora?
MR: Nei miei primi film, tendevo a preferire un linguaggio metaforico per evitare il confronto con la censura. Era un modo per sfuggire alla repressione che avrei subito facendo film e arte. Vedevo questo approccio anche come un ritorno alla tradizione della letteratura e della poesia persiana, dove metafore e allegorie sono elementi fondamentali dell’espressione. Lo trovavo sia conveniente che convincente. Con il tempo, però, ho capito che questo linguaggio metaforico era anche un modo per cedere alla censura, evitando di affrontare esplicitamente argomenti che avrebbero irritato le autorità. Ho quindi compreso l’importanza di diventare più diretto, per confrontarmi e affrontare in modo più esplicito l’ambiente circostante e i temi che potevo osservare e di cui potevo testimoniare. Questo cambiamento è avvenuto a metà della mia carriera, quando i miei film sono diventati più crudi nel rappresentare certe situazioni. Solo in questa terza e più recente fase del mio lavoro, i miei film hanno raggiunto una combinazione dei due aspetti, trattando storie in modo sia diretto che allegorico o metaforico. Penso che The Seed of the Sacred Fig sia il film in cui sono riuscito meglio a combinare questi elementi. Da un lato, mostra la mia volontà di testimoniare ciò che accade nella società iraniana, mentre gli altri livelli richiedono un’interpretazione da parte del pubblico.
Cerco sempre di comprendere questo sistema totalitario.
HE: La parola “confronto” sembrerebbe essere centrale, perché molti dei tuoi film ruotano intorno al dilemma tra obbedire e disobbedire gli ordini dello stato, o tra combattere e arrendersi. Con The Seed of the Sacred Fig trasponi questo dilemma societario in un’unità famigliare, dove un padre si piega al regime, mentre le sue figlie provano a ribellarsi e ad opporsi. In che modo questa piccola storia familiare diventa, per te, un simbolo della storia dell’Iran intero?
MR: Credo che ci siano alcuni interessi, domande o persino ossessioni che si mantengono da un film all’altro, senza che io voglia consapevolmente ritornarci o svilupparli ulteriormente. Prendono semplicemente forme diverse. Cerco sempre di comprendere questo sistema totalitario. Inizialmente, ho cercato di capirne i meccanismi: come funzionano questi sistemi e come sopravvivono? Poi, gradualmente, ho iniziato a essere più curioso riguardo agli individui. Cosa spinge queste persone a farne parte? Qual è il loro contesto sociale? Quali sono le loro specificità psicologiche? E i loro percorsi? Attraverso le mie esperienze, ho incontrato molti giudici, guardie carcerarie, interrogatori e ispettori, e ho iniziato a decifrare queste persone. Questo non porta molte risposte, non credo che otterremo mai risposte esaustive in questo senso, ma suggerisce qualcosa, ci offre qualche frammento di spiegazione. Cerco di costruire le mie sceneggiature e i miei personaggi a partire da queste osservazioni. In The Seed of the Sacred Fig questo è reso manifesto nel modo in cui il sistema di indottrinamento si insinua nella struttura familiare. Mostra come il sistema dipenda dall’aspettativa che qualcun altro penserà per te e ti trasmetterà le sue opinioni. È una catena: ricevi le tue credenze e idee dagli altri e ti aspetti che la persona sotto di te faccia lo stesso. C’è quindi questo indottrinamento, qualcosa che tu stesso trasmetti da un livello all’altro. Una scena del film mostra questo meccanismo in modo esplicito, quando il marito prega e sua moglie, dietro di lui, ripete i suoi stessi gesti, senza interrogarsi, senza essere coinvolta personalmente. È solo imitazione e riproduzione dello stesso discorso, delle stesse credenze e degli stessi gesti. Questa è la struttura che mi interessa.
HE: Prima di dedicarti al cinema, hai studiato sociologia. È ironico che, attraverso il tuo lavoro come cineasta, che ti ha condotto a vari scontri con il regime, tu abbia ottenuto una sorta di sintesi sociologica dei vari strati della burocrazia e dello stato iraniani. Non saresti, forse, involontariamente, un regista-sociologo che indaga le manifestazioni e i meccanismi interni di un sistema oppressivo verso i suoi cittadini?
MR: Non direi, perché la sociologia è una scienza e io non pretendo di descrivere in modo scientifico o oggettivo nelle situazioni che mostro nei miei film. Forse possiamo dire che i miei film presentano una visione onesta di alcune parti della società iraniana.
Forse possiamo dire che i miei film presentano una visione onesta di alcune parti della società iraniana.
HE: Le due figlie in The Seed of the Sacred Fig diventano il simbolo di una nuova generazione di manifestanti e attivisti che, dal 2022 in poi, sono diventati il volto del dissenso iraniano. Nel film mostri l’immediatezza con cui elaborano tutto quello che accade nella società, ovviamente grazie ai feed dei social media e alle dirette video. Si crea una tensione interessante, perché questi sviluppi avvengono in successione rapida e sono ripresi in tempo reale. Tuttavia, ci sono voluti anni per realizzare il tuo film, che deve comunque evocare quest’immediatezza. Come descriveresti la relazione tra l’aspetto riflessivo del cinema e l’immediatezza di ciò che sta accadendo nella società?
MR: Quando vivi in un regime totalitario, ogni conflitto ti pone di fronte a un dilemma morale. Spesso ti trovi a dover rispondere a domande ed affrontare restrizioni che ti costringono a prendere una decisione. Queste decisioni hanno sempre diversi livelli: da un lato c’è l’immediatezza della scelta, dall’altro ci sono i valori morali su cui si basano le tue decisioni. Posso darti un esempio specifico tratto dal film. Quando la madre si trova di fronte all’amica ferita delle figlie, inizialmente è profondamente colpita e desidera aiutare la ragazza. Tuttavia, appena si riprende, realizza che anche lei ha una famiglia da proteggere e, invece di salvare o aiutare la ragazza, decide di preservare la sua famiglia. Una situazione simile accade con il padre, che inizialmente è riluttante a firmare le richieste di condanna a morte, ma presto si convince a farlo perché è sotto il controllo diretto delle autorità e deve seguire le loro dottrine. Questi dilemmi sono legati a diversi livelli temporali e mostrano la complessità delle scelte che i personaggi devono affrontare.
HE: Alcuni registi iraniani, come tu e Jafar Panahi, sono riconosciuti come mentori e maestri per le giovani generazioni di artisti e cineasti. Considerando i grandi eventi della tua vita privata e della società iraniana in generale, le lezioni di saggezza che desideri trasmettere alle nuove generazioni sono cambiate? Oppure il messaggio rimane lo stesso, nonostante le circostanze siano mutate?
MR: Non mi piace la prima parte della tua domanda, che mi presenta come un modello o qualcuno che ha dei consigli da impartire. Mi considero uno studente, qualcuno che cerca di sperimentare e non vuole sentirsi costretto da principi o regole imposte. Vorrei aggiungere che ho notato come i sistemi totalitari, in particolare quello iraniano, cerchino sempre di convincere le nuove generazioni di artisti che la politica è inutile e di poco interesse, e che l’arte non dovrebbe mischiarsi alla politica perché opera su un altro livello, affermano che sarebbe uno spreco di energia occuparsene. Di fatto, più il sistema è totalitario, più tutto diventa politico. Ogni scelta, anche quella di rimanere in silenzio, diventa un modo di accettare la censura e consentire alle autorità di consolidare il loro potere. Il mio unico desiderio, in questo momento, è che la situazione diventi meno soffocante, che ci sia meno pressione e che io possa scegliere i soggetti dei miei film o il mio approccio estetico con maggiore libertà.
Mi considero uno studente, qualcuno che cerca di sperimentare e non vuole sentirsi costretto da principi o regole imposte.
HE: Tutto questo mi ricorda dell’uomo nel tuo documentario Head Wind (Baad-e-daboor, 2008), che sostiene che “provare invano sia molto meglio dell’apatia”. Non è questa segretamente la filosofia di tutta la tua opera?
MR: Esattamente. Inoltre, ho girato quel documentario tra due altri film. In quel periodo, volevo davvero conformarmi al sistema in cui lavoravo, cercando di ottenere i permessi necessari per svolgere il mio lavoro. Tuttavia, dopo il mio primo film, è diventato estremamente difficile ottenere un permesso per il secondo; quindi, ho deciso di realizzare un documentario tra un film e l’altro. Il permesso per il secondo film, ovviamente, non è mai arrivato per cui ho dovuto cambiare completamente il mio modo di lavorare. Quindi sì, tentare invano è ciò che ho sempre fatto ed è una buona descrizione del mio passato.
HE: Permettimi di farti una domanda riguardo al futuro incerto. Tu e l’Iran avete trascorso un periodo turbolento negli ultimi anni. Quali sono le tue speranze e le tue preoccupazioni per il futuro?
MR: Ci sono due livelli a questa domanda: uno personale e uno generale. Personalmente, a volte guardando indietro, mi dispiace che la vita sia così breve. Allo stesso tempo, gli scienziati affermano che ci sono molte galassie nell’universo e che noi viviamo in un minuscolo frammento di spazio. Considerando questo fatto, ci si rende conto di quanto una vita possa sembrare assurda. Tuttavia, nel tempo che ci è concesso di vivere, penso sia importante cercare di essere la migliore versione di noi stessi. Per me, ciò che è fondamentale è la libertà e la ricerca di questa libertà. L’evoluzione che considero essere più importante nella vita, specialmente in Iran, è quella culturale. Il cambiamento culturale è a rischio nel mio Paese e, allo stesso tempo, è necessario. Quindi cerco di contribuire, di avere un impatto culturale. È quanto di meglio io possa fare con la vita che mi è stata data. Questo implica non concentrarsi su una scala troppo vasta e non scoraggiarsi perché gli obiettivi sembrano irraggiungibili. Io penso piuttosto a questo: cosa posso fare nel mio piccolo per contribuire alla nostra lotta per la libertà e al cambiamento culturale?