News  ·  09 | 08 | 2024

Irène Jacob: 'Quando ami il tuo lavoro, vuoi continuare a farlo'

Il Festival di Locarno onora quest’anno con il Leopard Club Award Locarno 77 un’artista e una donna d’eccezione: Irène Jacob.

Di Maria Giovanna Vagenas
 

©FOTOFESTIVAL/MASSIMO PEDRAZZINI

Attrice, cantante, musicista, scrittrice, autrice-sceneggiatrice di opere teatrali, presidente del prestigioso Institut Lumière, madrina del laboratorio di astrofisica APC dell’Università di Paris Cité, madre di due promettenti attori, Paul e Samuel Kircher; il percorso artistico e personale di Irène Jacob, così ricco e straordinario, suscita in noi profonda ammirazione. Un solo fotogramma è sufficiente per imprimere nella nostra memoria il suo sguardo intenso, la sua voce dal timbro unico, capace di toccarci profondamente come in La double Vie de Vèronique (1991) di Krzysztof Kieślowski  che, a soli 25 anni, le valse il premio per la migliore interpretazione femminile a Cannes rendendola famosa nel mondo intero.

Da allora, Irène Jacob non ha mai smesso di mettere il suo grande talento a disposizione dell’arte, lavorando in Europa e negli Stati Uniti con molti grandi nomi del cinema, moltiplicando i progetti e restando sempre aperta ad ogni nuova sfida. La sua grazia e la sua generosità sono disarmanti, la sua esperienza e la sensibilità con cui approccia ogni aspetto del suo lavoro fanno di ogni conversazione con lei in un momento inestimabile. Nel corso del nostro incontro abbiamo avuto l’occasione di ripercorrere le tappe salienti della sua carriera e di discutere cosa significhi per lei essere attrice.

Maria Giovanna Vagenas: Il 2024 si preannuncia un grande anno per la sua carriera. L’abbiamo vista protagonista in Shikun di Amos Gitai e Meeting with Pol Pot (Rendez-vous avec Pol Pot) di Rithy Pahn, recentemente presentato a Cannes. Può dirmi qualcosa di più su questi progetti? 

Irene Jacob: Con piacere. Rithy Panh era entusiasta di tornare a Cannes, una vetrina importante per un film con un taglio artistico audace e personale come il suo. Meeting with Pol Pot è una storia vera, tratta dal libro della corrispondente di guerra statunitense Elizabeth Becker, una fra i pochissimi giornalisti scelti per raccontare la rivoluzione del 1978 in Cambogia. Rithy Panh e Becker, che si conoscevano da tempo, erano entrambi impazienti di portare questa storia sul grande schermo. I protagonisti del film sono tre francesi: una giornalista, interpretata da me, un fotografo e un intellettuale simpatizzante della rivoluzione. Tutti e tre accettano l'invito del regime a visitare il Paese. Sul posto la propaganda è palese, ogni cosa è una messinscena. Come si può testimoniare da un luogo dove si fa di tutto affinché non si veda nulla? Il genocidio è anche una questione di silenzio. Non si vede nulla, non si sente nulla. Questo è il nucleo del film. Le riprese in Cambogia sono state struggenti perché, nella storia che volevamo raccontare, ci sono ancora molte ferite aperte. Per non offendere gli spiriti con la nostra rievocazione dei fatti, dovevamo offrire loro un pollo bollito ogni settimana. In una situazione del genere, non ci si può limitare alla propria performance, ma si cerca di capire anche il mondo circostante. Ho dovuto essere aperta e ricettiva, con tutti i miei sensi, il mio corpo e le mie emozioni. 

 

MGV: In Shikun, lei interpreta tutti i ruoli della pièce Il rinoceronte (Rhinocéros) di Eugène Ionesco. Come ha affrontato questo compito così complesso? 

IJ: Amos Gitai mi ha dato molta libertà. Mi ha chiesto di preparare degli estratti della pièce, cosa che ho fatto, anche se nessuno sapeva come e dove si sarebbero svolte le riprese. Shikun è stato realizzato in modo istintivo e in pochissimo tempo, ma per Amos Gitai questo è del tutto irrilevante, perché il suo lavoro si fonda su un pensiero ed un impegno che lui porta avanti da 50 anni. Prima delle riprese, gli ho detto che avremmo avuto bisogno di un attore per interpretare gli altri ruoli del Rinoceronte e lui mi ha risposto: “No, farai tutto da sola, perché la schizofrenia nasce dentro di noi!” Shikun è di fatto una parabola sull'ascesa del totalitarismo ed è stato girato in Israele durante le proteste del 2023 contro la riforma giudiziaria del governo Netanyahu. Per puro caso il film è uscito in sala dopo il 7 ottobre e l'inizio della guerra a Gaza, nonostante ciò, Shikun portava già in sé i segni di tutto quello che sarebbe successo dopo. Eravamo perplessi all’idea di proiettarlo [a Berlino] quando il conflitto era al suo culmine, quindi abbiamo chiesto ad Amos se non fosse meglio datare il film in modo più preciso. Ma lui ci ha risposto: “Non si può mettere una data a un film, i film devono essere atemporali. Vengono creati in un momento specifico, ma quel momento contiene in sé i germi del passato e quelli del futuro”. Per lui è estremamente importante collaborare con persone di culture diverse, abbattere le barriere, integrare varie lingue e restare aperto alla pluralità.

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MGV: Passando in rassegna la sua carriera, La doppia vita di Veronica (La double vie de Véronique,1991) di Krzysztof Kieślowski, per il quale ha vinto il premio come migliore attrice a Cannes, ha mantenuto intatti nel tempo tutta la sua grazia e il suo mistero.

IJ: Sì, è meraviglioso vedere come questi film abbiano attraversato le frontiere e il tempo e siano ancora attuali. Quando giro il mondo per lavoro – che sia cinema o teatro, che sia Città del Messico, Rio de Janeiro o Tokyo – mi viene spesso chiesto di presentare questo film o Tre colori: Film rosso (Trois Couleurs: Rouge, 1994) di Kieślowski. Anche se per me è un po' strano rievocare quei tempi, lo faccio volentieri, perché c'è molto da dire sul modo in cui si lavorava nel cinema polacco di quel periodo. Kieślowski amava girare facendo poche riprese ma con molte angolature diverse, e gli piaceva molto il montaggio, per cui i suoi film venivano essenzialmente costruiti in sede di montaggio. Sul set sapeva ascoltare tutti e riunire e organizzare le varie proposte in un’unica straordinaria partitura. Per lui le riprese erano un vero e proprio lavoro d’équipe insieme ai suoi direttori della fotografia con i quali scambiava continuamente delle idee. Gli piaceva creare nuove sensazioni, offrire agli spettatori delle immagini mai viste, come per esempio il paesaggio filmato attraverso una biglia di vetro in La doppia vita di Veronica. Lavorare con lui su questi due film ha mi ha lasciato un'impronta profonda, forse proprio per la sensibilità straordinaria con cui sapeva illustrare il mistero degli esseri umani e quello della vita stessa.

MGV: La musica è sempre stata importante nella sua vita artistica. Dopo essersi diplomata al Conservatorio di Ginevra, nel corso degli anni ha continuato a cantare o a suonare in diversi progetti. Cosa rappresenta la musica per lei?

IJ: Ho detto spesso di essere approdata al cinema grazie al pianoforte, perché il mio primo ruolo - in Arrivederci Ragazzi (Au revoir, les enfants,1987) di Louis Malle - è stato il mio trampolino di lancio. Stavano cercando un'attrice che sapesse interpretare il Rondo Capriccioso di Saint-Saëns, un pezzo piuttosto impegnativo. Ho fatto il provino perché sapevo suonare il pianoforte e sono stata scelta. All'inizio della mia carriera, questo film mi ha davvero aperto tutte le porte, permettendomi di conoscere Kieślowski e molte altre persone nel mondo del cinema.

Ne La doppia vita di Veronica interpretavo una cantante e ho dovuto prendere delle lezioni di canto per preparami a questo ruolo. Nel corso degli anni, mi sono state offerte varie parti in opere liriche come in Perséphone di Igor Stravinsky o in Giovanna d’Arco al rogo (Jeanne d'Arc au bûcher) di Arthur Honegger, o dei ruoli di attrice in opere in cui la musica rivestiva un ruolo importante. Mi piace lavorare con la musica ogni volta che se ne presenta l’occasione, che sia in teatro o al cinema. In questo momento mi esibisco con la cantante-musicista Keren Ann in una pièce teatrale intitolata Où est-tu? che raccoglie poesie, canzoni e storie scritte da noi due. Anche quando mi preparo per un ruolo, mi piace molto ascoltare della musica. Scegliere la musica che voglio ascoltare di mattina e averla con me durante tutta la giornata mi aiuta nel lavoro. In generale, la musica ha un grande impatto sugli attori perché passa per il corpo e ci trasporta immediatamente in un altro mondo, con un'energia nuova.

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È meraviglioso vedere come questi film abbiano attraversato le frontiere e il tempo e siano ancora attuali.

MGV: Mi piacerebbe sapere cosa l'ha spinta da giovane a scegliere questa strada.

IJ: A un certo punto ognuno di noi si chiede: “Perché ho scelto di fare questo mestiere?. Penso che ci siano sempre delle ragioni, anche se non sono mai ovvie. Da bambina non andavo né al cinema né a teatro e a casa non avevamo la televisione. Mio padre era fisico e lavorava al CERN, per cui sono cresciuta in Svizzera vicino al laboratorio. Mia madre era psicologa e amava la musica. In casa non avevamo un background teatrale, ma ci piaceva leggere prosa e poesia. Da piccola mi piaceva recitare dei testi ad alta voce e, alle feste di famiglia, imitare vari membri della mia famiglia, come per esempio mia nonna. Recitavo sempre, come sanno fare i bambini. Far parte di una storia e raccontare una storia mi ha sempre affascinato. Da adolescente sono entrata in un gruppo teatrale dove creavamo i nostri spettacoli; in seguito mi è stato offerto un lavoro alla televisione Svizzera. Poi, quando ho compiuto 18 anni, sono andata a Parigi per frequentare la scuola nazionale di teatro, La Rue Blanche.

MGV: La sua filmografia conta oltre 60 film e i nomi dei registi con cui ha collaborato sono davvero impressionanti. Tra questi spiccano due grandi maestri: Michelangelo Antonioni e Theo Angelopoulos. Che ricordo serba del suo lavoro con loro?

IJ: Incontrare Antonioni sul set di Al di là delle nuvole (Beyond the Clouds, 1995) è stata un'esperienza profondamente toccante. Antonioni aveva visto Film rosso, ed è per questo che mi ha chiesto di lavorare con lui. È stata un'avventura eccezionale perché quest'uomo, colpito da un ictus, era fortemente limitato nei movimenti, ma aveva conservato intatte tutte le sue idee e la sua passione per il cinema.

C’era anche Wim Wenders, venuto per assistere Antonioni e far sì che le compagnie di assicurazione finanziassero il film. Anche se Antonioni avesse potuto muovere solo una palpebra, sua moglie Enrica e Wenders avrebbero fatto di tutto per aiutarlo a realizzare questo film. Durante le riprese, ho avuto modo di assistere ai suoi leggendari piani sequenza. Antonioni filmava come nessun altro regista al mondo, concentrandosi solo su ciò che intendeva montare in seguito. Tutti i film di Antonioni sono stati realizzati con questi piani sequenza, non c'era montaggio; tutto ciò che restava da fare dopo le riprese era metterli in ordine uno dopo l'altro, il che è davvero straordinario.

MGV: Com'è stato lavorare con Theodoros Angelopoulos in La polvere del tempo (Trilogia II: I skoni tou hronou, 2008)?

IJ: La polvere del tempo era la seconda parte di una trilogia iniziata nel 2004 con La sorgente del fiume (Trilogia I: To Livadi pou dakryzei) e mai conclusa a causa della sua prematura scomparsa. Questa trilogia, a cui lui teneva molto, era dedicata alla storia dolorosa del suo paese, segnato nel XX secolo dalla dittatura e dal comunismo. Nel film c’erano degli attori eccezionali tra cui Michel Piccoli, Bruno Ganz, Willem Dafoe... Io interpretavo Eleni, la madre del protagonista, e dovevo passare da 18 a 80 anni. Penso che Angelopoulos fosse combattuto tra il desiderio di creare un affresco storico, come era solito fare, e quello di approfondire i singoli personaggi. In fin dei conti, in questo film non ha particolarmente curato la recitazione, anche se noi ci siamo ritrovati a far parte di alcuni piani sequenza straordinari. Una statua che cade, un tram che passa, una folla che si muove: tutto era perfettamente sincronizzato, come in un’orchestra. Era stato Antonioni, in realtà, a ispirargli l'uso dei piani sequenza, che poi Angelopoulos avrebbe continuato a utilizzare nei suoi film, ma in modo molto diverso. Mentre Antonioni se ne serviva per raccontare delle storie intime, lui li usava per creare degli affreschi storici. Comunque, non penso che La polvere del tempo sia il suo film più memorabile.

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Antonioni filmava come nessun altro regista al mondo, concentrandosi solo su ciò che intendeva montare in seguito.

MGV: La recente retrospettiva del MoMA dedicata al regista Ilkka Järvi-Laturi ha contribuito alla riscoperta di un film curioso di cui lei è stata protagonista assieme a Bill Pullman: History is Made at Night (aka Spy Games, 1999), scritto da Patrick Amos e Jean-Pierre Gorin, dove interpretava una giovane e ambiziosa recluta del KGB. Può dirmi qualcosa di più al riguardo?

IJ: Devo ammettere di non averlo visto da molto tempo. Ilkka aveva fatto un primo film un po' sperimentale, molto bello, ma per quanto riguarda Spy Games temo avesse delle ambizioni contraddittorie: voleva fare una pellicola commerciale, preservando però anche il suo tocco artistico personale. Non sono sicura che si tratti di un’opera riuscita. In quell’epoca venivano realizzati molti film europei - chiamati “europrogetti” - a cui partecipavano varie nazionalità; vi collaboravano tedeschi, francesi, inglesi e americani, e tutti quanti erano entusiasti all’idea di lavorare insieme; purtroppo, spesso però venivano fuori dei film con un'identità “diluita” come questo.

 

MGV: Tra i suoi numerosi impegni al di fuori dello schermo, lei ricopre dal 2021 la prestigiosa carica di Presidente dell'Institut Lumière di Lione. Può parlarci brevemente di questo suo incarico?

IJ: Sono stata molto toccata dalla richiesta di assumere la presidenza dell'Institut Lumière, succedendo così a Bertrand Tavernier, suo fondatore e presidente per 40 anni. Il compito di trasmettere l’interesse per la cinefilia, che svolgo con l’aiuto di un'équipe meravigliosa diretta da Thierry Frémaux, è per me un'avventura straordinaria. L'Institut Lumière gestisce il museo dei fratelli Lumière e un'importante cineteca, nonché tre cinema d'arte ed essai a Lione. Inoltre, organizza un festival rinomato che s’impegna a sensibilizzare il pubblico verso il patrimonio cinematografico creando nessi tra la storia e l'attualità del cinema anche attraverso presentazioni ad hoc. 

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MGV: Ripensando a tutti questi anni di lavoro, c'è qualcosa – un ricordo particolare, un'emozione – che vorrebbe condividere con noi?

IJ: Quando ho iniziato a lavorare come attrice professionista, sognavo di poter fare questo mestiere il più a lungo possibile e di continuare a evolvermi. È una vera sfida perché, ovviamente, ti fai conoscere quando hai 20 anni, poi ne hai 30 e devi raccontare un'altra storia sulla persona che sei a 30 anni, e poi su quella che sarai a 40 anni. Bisogna anche trovare un equilibrio con la propria vita personale; capire dove e come si vuole vivere, e con chi; tutte queste cose devono essere gestite in contemporanea. Poi si compiono 50, 60, 70 anni e si deve andare avanti, sperando di poter lavorare fino a 80 anni, perché sono convinta che lavorare il più a lungo possibile ci renda felici. Quando vedo delle attrici come Judith Magre, che a 90 anni sono ancora in scena, mi rendo conto di quanto le aiuti a mantenersi in forma. Quando si ama il proprio lavoro, si vuole continuare a farlo. D'altra parte, la discontinuità fa parte del mestiere di attore, per cui dopo ogni pausa bisogna sempre sapersi rimettere in gioco. 

 

MGV: Come è riuscita a costruire una carriera così prestigiosa?

IJ: Non sono sicura di poterla definire una grande carriera, in ogni caso è un viaggio che inizia con i propri desideri e continua con gli incontri che si fanno e i progetti che ci vengono proposti. Spesso mi si chiede: “Con quale regista ti piacerebbe lavorare?”. Potrei citare vari registi con cui mi piacerebbe collaborare, come i fratelli Dardennes, per esempio, fatto sta che non ho mai lavorato con nessuno di loro. Poi, inaspettatamente, mi viene presentato qualcuno che non ho mai visto prima, ed è un incontro straordinario. Bisogna definire i propri desideri, bisogna attualizzarli ed essere aperti alle opportunità che si presentano. Anche in teatro mi sono state fatte proposte molto interessanti: Thomas Ostermeier mi ha chiesto di lavorare con lui in Retour à Reims e Katie Michell in La Voce Umana (La Voix Humaine)... Non avrei mai immaginato di potere lavorare con Louis Malle, Krysztof Kieślowski, Antonioni, Amos Gitai o Rithy Panh. Continuo a chiedermi: “Come è successo? Perché?” Davvero non lo so. 

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L'Institut Lumière gestisce il museo dei fratelli Lumière e un'importante cineteca, nonché tre cinema d'arte ed essai a Lione. Inoltre, organizza un festival rinomato che s’impegna a sensibilizzare il pubblico verso il patrimonio cinematografico creando nessi tra la storia e l'attualità del cinema anche attraverso presentazioni ad hoc. 

MGV: Come definirebbe il suo stile di recitazione?

IJ: Recitare è un mestiere estremamente personale. Kieślowski me lo ha detto subito: “La doppia vita di Veronica è un film poetico che non parla tanto di cose connesse all'azione. Ho bisogno che tu dia qualcosa di te stessa, altrimenti il film non sarà vivo, risulterà pretenzioso e non toccherai nessuno!”. È questo l'obiettivo di scuole come l'Actors Studio o il metodo Stanislavskij: insegnarci ad attingere ai sentimenti ed esplorare il nostro bagaglio emotivo. È un approccio istintivo e ognuno lo gestisce in modo diverso, ma è fondamentale per un attore divertirsi a giocare con le emozioni. Bisogna anche imparare a lavorare con una varietà di registi diversi, ognuno dei quali ci consente di vedere noi stessi in una luce nuova.

 

MGV: Concludendo, cosa significa per lei essere un’attrice?

IJ: La recitazione è un'arte collettiva, non è un lavoro che si fa da soli. Si esce di casa per incontrare una nuova squadra con cui creare un’intesa comune. Un progetto è interessante quando quest'incontro è sorprendente e inatteso. Quello dell’attore è un lavoro possessivo e richiede molto da noi. Bisogna essere sempre all’erta. Spesso si viene ingaggiati all'ultimo minuto, bisogna mollare tutto e partire subito. Molti progetti non giungono mai a buon fine. La carriera di un attore consiste in tutto quello che hai fatto, in tutto quello che non hai mai fatto, e in tutto quello che hai fatto ma non nel modo in cui avresti voluto. Si continua ad andare avanti e, all'improvviso, c'è un momento di grazia – e poi c'è un contraccolpo. È un lavoro che bisogna costruire con la generosità, con incontri, osservazione ed empatia.