News  ·  08 | 08 | 2024

'Sono le imperfezioni a rendere davvero tua un’opera d’arte': Klaudia Reynicke a proposito di Reinas

Di Leonardo Goi
Traduzione di Anna Rusconi

©KLAUDIA REYNICKE

Leonardo Goi: Guardando Reinas ho continuato a pensare al tuo documentario del 2013 ¿Así son los hombres?, altro film che ha al suo centro una famiglia peruviana dispersa per il mondo – la tua – e nato, così hai detto, dopo che ti eri imbattuta in un mucchio di vecchie cassette VHS. Reinas da cosa ha preso le mosse?

Klaudia Reynicke: A me non era mai venuto in mente di collegare quel documentario a Reinas, il che è strano, perché in effetti un sacco di gente sembra trovarci delle analogie. A portarmi verso questa storia è stata la volontà di ristabilire un contatto con il Perù. Si tratta del mio terzo film. I primi due li ho girati qui in Europa, oltre ad una serie che ho realizzato per la tivù svizzera e francese, La vie devant (2022). Cosa di cui sono molto felice, naturalmente: oggi è in questo angolo di mondo che vivo, so di cosa parlo. Ma ogni volta che mi presentavo e dicevo che ero peruviana percepivo un po’ di scetticismo. Così ho iniziato a domandarmi se non stavo perdendo il mio lato peruviano solo perché il paese non lo conoscevo davvero. Me ne sono andata a dieci anni e da allora c’ero tornata solo due o tre volte, e solo in vacanza. Ma crescendo ho sentito di dovergli restituire qualcosa. Sapevo che prima o poi avrei dovuto girarci un film. In un modo o nell’altro, i miei film ruotano sempre intorno a questioni familiari, ma in questo caso mi interessava un momento preciso e che raramente il cinema mostra: quello in cui ti prepari a partire. La maggior parte dei film sulla migrazione parla dei protagonisti durante il viaggio o dopo che sono arrivati, quando non sanno cosa fare perché gli è tutto estraneo. Ma quel particolare momento in cui sei ancora nel paese da cui sai che presto dovrai staccarti, ecco, è così intenso che è difficile raccontarlo, ma era proprio su quello che volevo focalizzarmi. Quando ho cominciato a scrivere non era tanto al mio vecchio documentario che pensavo, quanto ad altri film seminali sul mio paese e sul periodo storico in cui volevo ambientarlo. Una delle principali fonti d’ispirazione è stata Metal and Melancholy (Meetal en melancholie, 1993), di Heddy Honigmann e Peter Delpeut. Honigmann è una regista olandese peruviana di nascita e ha girato questo gioiellino di documentario – visibile su YouTube! – facendosi scarrozzare per Lima da alcuni tassisti. Solo che non erano “veri” tassisti, ma, come il padre di Reinas, persone che si erano ritrovate a fare quel lavoro perché agli inizi degli anni ’90 l’economia nazionale era allo sfascio.

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Mi interessava un momento preciso e che raramente il cinema mostra: quello in cui ti prepari a partire.

LG: Hai scritto questo film insieme a Diego Vega, un altro peruviano trapiantato in Europa. Quanto è stato importante  lavorare con qualcuno in grado di condividere un senso di dislocazione analogo al tuo?

KR: Fondamentale, è stato fondamentale. In realtà avevo cominciato a scrivere per conto mio, ma presto mi sono resa conto che avevo bisogno di qualcuno di peruviano come me che conoscesse meglio gli avvenimenti del periodo, perché io ero troppo piccola quando me ne sono andata. Diego l’avevo conosciuto proprio a Locarno, mentre era lì con il fratello Daniel per il film a cui avevano lavorato insieme, El Mudo (2013). Così siamo diventati amici, e a distanza di anni l’ho richiamato per sottoporgli una bozza del soggetto. L’idea gli è piaciuta subito. Anche lui è un expat, la prima volta che è partito dal Perù aveva solo 14 anni, si è trasferito in Messico e poi è tornato a Lima, dove è rimasto per qualche anno, ormai grande, per poi spostarsi definitivamente a Barcellona. È stato bellissimo avere qualcuno con una storia familiare che risuonava con quella che mi immaginavo io. Il suo punto di vista mi è stato preziosissimo.

©Alva Film, Inicia Films, Maretazo Cine ©Alva Film, Inicia Films, Maretazo Cine

LG: Quanto tempo ci hai messo a finire la sceneggiatura, e quanto è cambiata negli anni?

KR: Qualunque progetto di questa complessità attraversa molte fasi diverse. In realtà mentre scrivevo da sola avevo pensato al personaggio di un patrigno, che poi hotagliato per concentrarmi sul padre, e alla fine sulle bambine. L’unica cosa che sapevo fin dall’inizio era che il film doveva seguire le vicende di due sorelline che stanno per emigrare, e a cui di colpo viene offerta  la possibilità di riallacciare i contatti con un padre completamente estraniato. È buffo, perché proprio mentre stavo ultimando il final cut mi è ricapitata tra le mani un vecchio pitch del 2000 e la sinossi era identica. Non riuscivo a credere di essere tornata al punto di partenza! Tra una pausa e l’altra, l’intero processo di scrittura è durato tre anni. Inizialmente non abbiamo ottenuto i fondi per cui avevamo fatto domanda. Avevo sempre pensato che fosse un film molto fragile, un protagonista vero non c’è e fondamentalmente l’antagonista è il contesto stesso, ma non volevo portare questo aspetto in primo piano perché non mi interessava fare un film politico. È un film sulla famiglia, e trovare questo equilibrio in fase di scrittura è stato molto difficile. Dopo il primo rifiuto abbiamo riscritto tutto daccapo, ma sono ancora convinta che non avessero realmente capito in che modo volevamo procedere. Può darsi dipenda dal fatto che le commissioni di valutazione tendono a pensare alla sceneggiatura come a un filo rosso da seguire in maniera rigorosa, mentre non è così! Alla fine, il film vero lo scopri sempre in sala montaggio.

LG: Una volta terminato il film, i personaggi continuano ad accompagnarti? In Reinas ce n’è uno in particolare che ti perseguita ancora?

KR: No, non credo ci sia un personaggio che ha prevalso sugli altri. Per me Reinas è un pacchetto completo: non puoi pensare al padre senza le due figlie, o alle figlie senza la nonna o la madre. Detto questo, sicuramente ce n’è uno che mi fa ridere ogni volta che mi viene in mente, ed è il fantasma… ma non arriverei a dire che mi perseguita! [ride]

 

LG: E personaggi che invece hai fatto fatica a scrivere? Oppure qualcuno che, al contrario, ti sei divertita particolarmente a plasmare?

KR: Credo che il più difficile sia stato il personaggio della madre. Il padre era più facile. Relativamente parlando, almeno. È un uomo dotato di fervida immaginazione, capace di intrattenerti in mille modi. Mente, sì, ma comunque fa ridere, e questo in gran parte si deve all’interprete: Gonzalo Molina è un attore generosissimo. Ha una leggerezza speciale! Credo sia questo che aiuta molto il pubblico ad amare Carlos, il suo personaggio. Magari se avessimo scelto un attore un po’ più misterioso sarebbe risultato più difficile. Ma con la madre la difficoltà sta semplicemente nel fatto che la sua non è certo la parte più accattivante del film. Lei è una donna molto pratica: ha tirato su le figlie, ha un progetto, vuole andarsene. È pragmatica, ma siccome non ha mai potuto contare sul marito è anche il poliziotto cattivo. Il che complicava la scrittura. Le figlie… be’, loro le ameranno tutti, di questo non abbiamo mai dubitato. Con la madre, invece, dovevamo costruire una figura che andasse oltre la relazione complicata e i conflitti con Carlos. Sì, trovare l’equilibrio con lei è stata dura. In effetti il grosso del lavoro mio e di Diego è stato proprio su di lei, compreso decidere se volessimo descrivere di più o di meno il suo personaggio.

LG: Vorrei tornare all’ambientazione storica e politica. Sono rimasto molto colpito da come il film lasci filtrare pochissimo di quanto succede al di fuori delle mura domestiche. A parte l’inserto televisivo iniziale, dei protagonisti del Perù di allora non si parla quasi (del presidente Alberto Fujimori, o del capo dei servizi segreti Vladimiro Montesinos), così come delle atrocità avvenute in quel periodo. Puoi raccontarci qualcosa di più su come hai coniugato storia familiare e sociale, micro e macro?

KR: All’inizio qualche nome l’avevamo incluso, ma poi l’abbiamo tolto perché doveva essere un racconto con una valenza più universale. Aggiungere dei nomi qua e là, a mo’ di sottolineature, non bastava. La clip di apertura a cui accennavi, quella dove il giornalista parla dei prezzi che schizzano alle stelle, è uno spezzone molto famoso che ai tempi ebbe un impatto profondo sul Paese, ma lo guardano ancora oggi. È del giorno in cui la gente si svegliò e, in sostanza, scoprì che il Perù stava andando gambe all’aria. Ho pensato che sarebbe stato più forte inserire momenti del genere piuttosto che affidarsi a nomi che a qualcuno potevano dire qualcosa e a qualcun altro no. A me interessavano soprattutto gli effetti di quei cambiamenti sistemici, parlare della disperazione con cui deve fare i conti una famiglia della classe media quando il mondo che conosce di colpo si sgretola.

 

LG: Hai citato Gonzalo Molina, ma come hai incrociato la strada delle due giovani attrici, Abril Gjurinovic e Luana Vega, e quando?

KR: Be’, abbiamo iniziato le ricerche per il casting delle due sorelle prima del Covid. All’epoca ero in Svizzera, per cui molto lontana: in Perù c’erano agenti che mi mandavano dei nastri da visionare, ma non ci ho messo molto a capire che non mi interessava vedere bambine già comparse in televisione o in pubblicità, perché erano già abituate ad utilizzare un linguaggio per me molto difficile da scardinare. Con gli adulti funziona, ma coi bambini è complicato. Perciò chiesi ai nostri collaboratori di andare a cercarle in giro, per il vasto mondo! [ride] E a quel punto arrivò il Covid. Ci siamo dovuti fermare per due anni, in Perù la pandemia ha avuto un impatto terrificante. Solo dopo aver  ripreso in mano il progetto abbiamo trovato Abril, la più piccola, che impersona Lucía. Lei e suo padre si trovavano in un centro commerciale e accettarono di presentarsi per il provino. Quando la vidi non ebbi il minimo dubbio, seppi immediatamente che era lei. Solo che quando lo comunicai ai nostri responsabili del casting, mi dissero che era sparita. E così saltò fuori che viveva non in Perù ma in Belgio, con la madre. Ci volle quasi un mese per rintracciarla.

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Come dirigo i bambini? Sicuramente non come dirigo gli adulti.

LG: Sembra quasi la storia del personaggio che interpreta.

KR: Assolutamente! Quando la incrociammo per la prima volta era in vacanza con il padre a Lima, ma doveva rientrare in Belgio. Per quanto riguarda Luana, invece, che fa Aurora, avevo già fatto delle audizioni con delle ragazze, ma nessuna mi soddisfaceva del tutto. Poi un giorno stavo parlando su Zoom con Daniel Vega, il fratello di Diego, quando gli passò di fianco la figlia di quattordici anni. «E com’è che lei non ha ancora fatto un provino?» esclamai, e lui disse che non le interessava. I suoi lavorano entrambi per il cinema e Luana non aveva nessuna intenzione di seguire le loro orme. Voleva studiare legge o medicina. Allora chiesi a suo padre di mandarmi delle foto, e poi gli dissi che magari la figlia poteva presentarsi al provino insieme a un’amica e vedere se lì per lì le veniva voglia di tentare. Così è stato. Andò al provino con un’amica che nel film interpreta appunto una delle amiche di Aurora, e poi decise sul momento di buttarsi anche lei. Fu stupefacente. Insomma, alla fine l’ho chiamata e le ho detto: «Senti, Luana, ti va di fare il film o no? Perché se non ti va, ovviamente io non intendo forzarti, ma vorrei capire se l’idea ti interessa». E lei disse che le andava, sì. «Mio padre ha detto che mi paghi.»

 

LG: Avere chiare le priorità è importante!

KR: Eccome! [ride] È una ragazza molto simpatica e sveglissima. Parla tipo cinque lingue, sembrava una professionista navigata.

 

LG: Non è la prima volta che lavori con dei bambini. Sono curioso di sapere come dirigi gli attori più giovani, che non lo fanno di mestiere.

KR: Sicuramente non come dirigo gli adulti. Ai bambini non do battute precise. Ci parlo. Magari gli dico «Prova a pensare a una certa situazione e a fare questa cosa, o a dire quest’altra…» Non puoi usare lo stesso approccio che adotti con un adulto, non puoi andare da un bambino e dirgli «Okay, ripetiamo la scena, e stavolta falla triste». Prima devi conoscerli. In genere ci passo molto tempo insieme, finché arrivano a fidarsi di me, perché l’elemento indispensabile è la fiducia. A quel punto diventa tutto molto più facile. Non che lavorare con Abril e Luana sia mai stato complicato, ma devi sempre ricordarti che per loro deve continuare a essere un gioco, non un lavoro. Perciò abbiamo elaborato una tabella di marcia che le proteggesse: tanto per dirne una, abbiamo deciso che con loro non avremmo mai girato per più di sei ore al giorno. E così alla fin hanno avuto uno spazio in cui si sentivano al sicuro, cosa che, essendo alla loro prima esperienza, era di importanza capitale.

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È veramente incredibile ritrovarti sul set a lavorare con qualcuno a cui praticamente non devi dire niente.

LG: Mi piacerebbe parlare un po’ di fotografia, adesso. Conosco Diego Romero, il tuo direttore, dal suo lavoro con Roberto Minervini. L’hai scelto anche per la sua esperienza in ambito documentaristico?

KR: La nostra è una bellissima collaborazione. Abbiamo lavorato insieme in Love me tender (2019), e poi di nuovo per la serie La vie devant (2022). Ormai ci conosciamo molto bene e mi piace che Diego abbia questa esperienza enorme tanto nella fiction quanto nei documentari. Io sono una grande fan di Minervini, la prima volta che ho visto i suoi film stavo montando Il nido. Fu proprio la mia montatrice, Marie-Hèléne Dozo, a consigliarmi di guardarli, e io me ne innamorai all’istante, soprattutto per la qualità altissima della fotografia. Saranno anche documentari, ma ti sembra di essere dentro una favola. Quando i fratelli Vega hanno deciso di fare il loro terzo film, La bronca (The Clash, 2019), l’hanno voluto come direttore della fotografia e alla fine ci hanno presentati. Diego è un personaggio molto intenso… molto divertente, ma è un artista. Quando abbiamo girato Love me tender, per esempio, lui non voleva luci artificiali per via dei suoi trascorsi con i documentari, immagino. Il che è pazzesco, perché guardando il film non te ne accorgi neanche. È curatissimo, eppure non abbiamo praticamente usato luci. Il nido l’ho girato con Hélène Louvart alla direzione della fotografia ed è stata un’esperienza straordinaria, ma lei viene da una scuola completamente diversa. Più francese… più classica. Un sacco di luci, un sacco di attese. Con Diego, era sempre lui ad aspettare noi! [ride] Da allora ha anche cambiato un po’ l’approccio, ma il motivo per cui lavoriamo così bene insieme è che siamo molto veloci. Non ci è mai capitato di sforare i tempi, in nessuno dei progetti a cui abbiamo collaborato. E questo grazie alla preparazione minuziosa prima di girare. In questo modo è sempre possibile inserire cambiamenti all’ultimo minuto, magari gli dico che ho cambiato idea su dove piazzare questa o quella cinepresa e lui in un attimo risistema tutto. È veramente incredibile ritrovarti sul set a lavorare con qualcuno a cui praticamente non devi dire niente.

©Alva Film, Inicia Films, Maretazo Cine ©Alva Film, Inicia Films, Maretazo Cine

LG: Spero di non sembrarti inopportuno con questa domanda un po’ più personale, ma sarei curioso di sapere cos’hai provato a girare un film nel Paese in cui sei nata ma con cui avevi da tempo perso il contatto…

KR: La luce verde è arrivata soltanto nel settembre del 2022. In giugno avevamo inviato la seconda sceneggiatura, rivista e corretta, e di colpo a settembre ecco il finanziamento dalla Svizzera. Non riuscivo a crederci. Avevo anche una bella paura. Ho due bambini ancora piccoli, uno di sette e l’altro di dodici anni, ho sempre cercato di portarli con me per poter passare quanto più tempo possibile insieme mentre giravo. Ma avevo sempre lavorato in Svizzera. In Love me tender andavo sul set in bicicletta: ci mettevo cinque minuti. E nel caso della serie, hanno potuto seguirmi con mio marito e mia madre e trascorrere un mese assieme a me. Insomma, all’improvviso mi sondo chiesta «E adesso cosa faccio?» Voglio dire, non conoscevo neanche più il Perù, non sapevo se fossi in grado di dirigere in spagnolo, se fossi ancora abbastanza padrona della lingua… Poi è arrivato ottobre e sono andata a Lima per finalizzare il casting e conoscere gli attori. Là erano all’inizio della primavera, faceva freddissimo e umidissimo, la città era molto diversa da come me la ricordavo. Grigia. A un certo punto mi sono persino chiesta se mi piacesse ancora… [ride] Poi ho cominciato a bazzicare qualche ristorante, e le cose sono cambiate.

Comunque sì, è stato parecchio difficile riadattarmi a un paese che non ero nemmeno sicura di poter ancora chiamare mio. E poi sono scoppiate le proteste, ci sono stati gli scontri. In dicembre il presidente Castillo ha tentato un golpe, proprio come Fujimori trent’anni prima. Ma non ce l’ha fatta. È finito in prigione e al suo posto è salita la sua vice, che da allora governa come una specie di dittatrice. E la gente ha cominciato a protestare, è scesa in piazza, ci sono stati scontri e alcuni manifestanti sono morti. Noi ci siamo ritrovati in mezzo a tutto questo, a girare un film che parlava dello stesso scontento, capisci? Sembrava di essere dentro alla storia che stavamo raccontando! [ride] Ogni giorno i produttori ci dicevano che da un momento all’altro potevamo dover fare i bagagli e andarcene. La situazione continuava a peggiorare. Siamo arrivati a spostare la location principale dal centro di Lima a una zona più periferica. E poi un giorno si è messo a piovere, cosa che a quanto pare non succedeva da trentotto anni. Sono venute giù due gocce, ma è stato un disastro. Basta che a Lima piova pochissimo, e lungo la costa si formano delle colate di fango. Infatti così è successo. Stavamo girando in una location sul mare: una settimana dopo, l’intera area è stata letteralmente devastata dagli allagamenti.

Per fortuna alla fine è andato tutto liscio. La troupe veniva da tre paesi diversi e sul set si parlavano quattro o cinque lingue. Ad oggi, credo sia stata per me l’esperienza di lavorazione più incredibile. L’amore e la passione che ci hanno messo tutti… una cosa pazzesca. Come regista, poter contare su una squadra pronta a battersi per la tua visione è un aiuto enorme, perché di fatto è ciò che poi rende il tuo film diverso da tutti gli altri. Strada facendo ho imparato proprio che se c’è una cosa su cui non devo mai scendere a compromessi è questa: la mia visione. Che naturalmente comporta tutte le imperfezioni del caso, ma sono le imperfezioni a rendere davvero tua un’opera d’arte. Se però vuoi anche salvarle nel final cut, devi batterti nel vero senso della parola. E questa è stata la grande battaglia, fino alla fine.

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È stato parecchio difficile riadattarmi a un paese che non ero nemmeno sicura di poter ancora chiamare mio.

LG: Potremmo dire che fare questo film ha risanato il tuo rapporto con il Perù? Che Reinas ha cambiato il modo in cui pensi alla tua identità e al legame con il tuo paese di nascita?

KR: Oh, senza dubbio. La sensazione è che ci sia una vita prima e una vita dopo Reinas. Poter passare tre mesi in Perù, e non come turista ma per fare il mio lavoro, circondata da altri peruviani ed europei… be’, è stato impagabile. D’ora in avanti voglio tornarci una volta all’anno. Voglio che i miei figli possano stabilire un legame con un Paese da cui io sono stata costretta a staccarmi troppo presto, ma con cui adesso sono abbastanza adulta per mantenere un contatto. Voglio pensare a nuovi progetti e collaborazioni con altri Paesi latino americani. Il che non significa farmi ossessionare dall’idea di girare sempre lì, perché ogni storia ha bisogno del posto giusto per essere raccontata, non è che tutto può avere inizio a Lima. Però sì, certo, il mio rapporto con il Paese è completamente cambiato. È molto importante non cadere nel sentimentalismo quando parli del luogo in cui sei nata, soprattutto se poi hai trascorso tanto tempo altrove, e io sono contenta di avere smesso di idealizzare il mio Paese. Però sono anche contenta di averlo potuto conoscere e amare molto di più, e di poterne finalmente parlare con tranquillità. Di poter parlare di Lima e di tutti i bei posti che ho visitato, di poter dire che mi sento tanto peruviana quanto svizzera, perché sono due parti fondamentali di me, di chi sono. È stato un gran viaggio, davvero.