News  ·  12 | 08 | 2024

Shambhala: girare un film sul tetto del mondo

In questa chiacchierata con Pardo, il regista nepalese Min Bahadur Bham parla del suo ultimo lungometraggio e delle sfide incontrate alle grandi altezze, alle prese con attori non professionisti e la scoperta di sé.

Di Laurine Chiarini

A sei anni dalla partecipazione all’Open Doors Hub di Locarno del 2018, Min Bahadur Bham ritorna in Ticino per presentare in Piazza Grande il suo ultimo lungometraggio. Lo spettacolare Shambhala è ambientato in un villaggio appollaiato sui monti dell’Himalaya, dove la poliandria – la possibilità per le donne di avere più mariti – è la regola. Quando Tashi (Tenzin Dalha) scompare durante un viaggio verso Lhasa, la moglie Pema (Thinley Lhamo) decide di andare a cercarlo. Ad accompagnarla ci sono il monaco Karma (Sonam Topden), il fratello di Tashi e un altro marito, ma per Pema sarà un’occasione per scoprire sé stessa.

In quella che alla fine è diventata una conversazione di due ore, Bham ha raccontato in che modo un film può trasformarsi in un processo di intensa introspezione, ha illustrato nei dettagli le insidiose condizioni di lavoro a 6000 metri di altezza, chiarito perché la poliandria può essere più una necessità pratica che non una scelta e spiegato come si fa un maglione ai ferri.

Laurine Chiarini: Hai un master in filosofia buddista e scienze politiche, e in questo momento stai facendo un dottorato in antropologia, che cosa ti ha portato a fare cinema?

Min Bahadur Bham: Lo studio di queste discipline è frutto della curiosità, ma c’è anche un filo che le lega al cinema. The Black Hen [Kalo Pothi, il suo primo lungometraggio, uscito nel 2015] era una storia legata alla politica, e questo mi ha portato a studiare scienze politiche. La postproduzione si è conclusa mentre stavo scrivendo Shambhala e, per venire al dottorato, l’antropologia era già sulla mia lista perché desideravo studiarla da una vita. Volevo conoscere e scoprire storie che mi fornissero materiale su cui scrivere del mio Paese, ci tenevo a capire meglio gli aspetti socioculturali e i significati culturali delle cose. L’antropologia mi ha aiutato tantissimo, soprattutto quando ho cominciato a fare film. Certo, non è facile gestire tutto a livello di tempo, ma per adesso ci riesco… sono fortunato.

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Forse in una vita passata ero stato monaco, perché visualizzavo il monastero, gli amici, il paesaggio… non riuscivo a togliermeli dalla testa neanche per un attimo, mi faceva un po’ impressione.

LC: In che misura la tua formazione accademica influisce sul tuo lavoro di regista? E, viceversa, la tua carriera artistica arriva a nutrire quella accademica?

MBB: Il lato artistico dà una mano alla carriera accademica. Quasi tutti i docenti della mia università avevano visto il mio film precedente, The Black Hen, quindi erano pronti a scusarmi se non frequentavo le lezioni tutti i giorni. Ma anche i miei studi hanno sicuramente beneficiato dell’attività di sceneggiatore. Mentre scrivo guardo molte immagini, leggo libri e traduco; tutte cose che influiscono in modo positivo sui due fronti. La stesura di una sceneggiatura richiede anche tantissima ricerca, in questo è simile alla produzione degli scritti accademici. Rispetto ai miei compagni di studi, le ricerche per Shambhala e la conoscenza della lingua locale mi hanno semplificato molto il percorso del dottorato: conoscevo già l’ambiente e la comunità, conoscevo già bene il terreno e le persone.

 

LC: Il tuo lungometraggio d’esordio, The Black Hen, è stato ufficialmente in lizza agli Oscar per il Nepal, e Shambhala è il primo film nepalese in concorso alla Berlinale: non ti senti un po’ un pioniere?

MBB: Quello che sento è una grande responsabilità, ed è stato così fin dal mio esordio: The Black Hen è stato anche il primo film nepalese presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Da allora ho sentito il bisogno di fare di più. Ho anche iniziato a produrre più che a dirigere, benché mirassi a diventare sceneggiatore, non produttore. Ma ho cominciato a produrre i film dei miei amici perché ci tenevo a sostenerli e a guidarli. Da solo non potevo fare molto, mi serviva aiuto, migliorare un’industria richiede uno sforzo collettivo. Quindi, per quanto sia una grande responsabilità, tutte queste esperienze mi rinfrancano, mi motivano e mi incoraggiano per il futuro.

LC: Da dove è partita l’idea di Shambhala?

MBB: La primissima scintilla si è accesa quando avevo 12 o 13 anni. All’epoca andavo ancora a scuola, ma nello stesso periodo avevo iniziato a studiare meditazione con mio padre. Mi immaginavo sempre la mia vita precedente, non so, mi arrivava dai sogni, dalla fantasia. Forse in una vita passata ero stato monaco, perché visualizzavo il monastero, gli amici, il paesaggio… non riuscivo a togliermeli dalla testa neanche per un attimo, mi faceva un po’ impressione. Da allora, ho sempre desiderato andarci, ma era un posto molto lontano dal mio villaggio, la possibilità non mi si era mai presentata. Poi mi sono trasferito in città, dove ho provato a scrivere e a diventare un regista. Mentre giravo The Black Hen stavo scrivendo una storia su Shambhala [un regno spirituale della tradizione buddista tibetana], anche se all’inizio non avevo nessuna intenzione di farne un film. Con l’uscita di The Black Hen però mi sono arrivati un po’ di soldi, e così è venuto il momento di farlo, di partire per la regione dell’Alto Dolpo. Volevo a tutti i costi scoprire se quelle immagini corrispondevano al vero o no, ma avevo mille domande che mi frullavano per la testa. Alla fine, quello che ho trovato lassù sono stati esattamente lo stesso monastero e lo stesso paesaggio che avevo sempre visualizzato! Una cosa incredibile, ero al settimo cielo, ma anche un po’ spaventato, perché non sono sensazioni semplici da gestire. Così mi sono messo subito a scrivere il copione per Shambhala, pensando che sarebbe stato il mio prossimo film: mi perseguitava da troppo tempo. Se non fossi riuscito a farne un film, poteva comunque rientrare nella mia ricerca accademica e tornarmi lo stesso utile. Ogni volta che andavo in quel villaggio mi sentivo emotivamente più legato ai suoi abitanti e alla mia vita passata.

 

LC: Agli occhi del pubblico occidentale un villaggio dove vige la poliandria può sembrare qualcosa di esotico. Ma nelle società con scarse risorse ambientali diventa qualcosa più di una semplice scelta: una necessità pratica, direi. Questo sistema contribuisce a contenere la crescita demografica, ad abbassare il tasso di mortalità, a prevenire la dispersione del patrimonio familiare e a garantire continuità di sostegno grazie alla presenza costante sul posto di almeno un marito.

MBB: Io non ho molta esperienza con il pubblico occidentale, né so cosa aspettarmi di preciso: a Berlino [dove Shambhala è stato proiettato come prima] praticamente non ho avuto contatti con chi aveva visto il film. Magari sarà sembrata una cosa esotica, ma lo stesso può valere per i nepalesi di Katmandu. Non puntavo a idealizzare una tradizione: semplicemente, volevo ispirarmi ad una cultura unica ancora viva nel ventunesimo secolo. Questa gente ha ottimi motivi per conservare certe pratiche, in primo luogo per evitare la frammentazione dei beni, cosa che comporta parecchi vantaggi concreti. Non vogliono crescere in numero, perché in montagna gli unici mezzi con cui sostentarsi sono l’agricoltura e l’allevamento, e la terra coltivabile è scarsissima. Inoltre non c’è spazio per costruire altre case, cosa che d’altro canto contribuisce a proteggere l’ambiente naturale. La vita in quei posti è durissima, senza uomini le famiglie non ce la farebbero a sopravvivere, quindi è impensabile che le donne possano restare vedove. Senza contare che in parte la tradizione ha anche origini religiose. Dalla loro prospettiva, questo sistema è assolutamente sensato e ragionevole. Oggi c’è più possibilità di scegliere: puoi fare la guida o il portatore, trasferirti in città, persino emigrare. Potresti sentirti a disagio se il tuo metro di misura è la parità di genere, ma come autore io mi sforzo di mantenermi neutrale. Volevo utilizzare lo sfondo della poliandria per ambientarci la mia storia, non per farne il focus del film. Considerati i miei studi, il mio obiettivo non era la correttezza politica ma la fedeltà antropologica.

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Per la troupe internazionale, quasi tutta proveniente da località a livello del mare, uno dei problemi principali è stato il mal di montagna. Ogni giorno c’era qualcuno che doveva ricorrere all’ossigeno, e abbiamo dovuto chiamare più volte l’elisoccorso. Soffrivano tutti di nausea e capogiro.

LC: Il film è stato girato sull’Himalaya, tra il Nepal e il Tibet, ad altitudini comprese tra i 4’000 e i 6’200 metri, in uno degli insediamenti umani ad altitudine più elevata del pianeta. Cosa ha significato lavorare in condizioni così estreme?

MBB: Abbiamo avuto diversi incidenti di percorso. Il primo villaggio, dove siamo rimasti tre mesi nella fase di preproduzione, era di fatto il luogo abitato più alto del pianeta, anche se adesso è stato superato da un insediamento in Perù. Diciamo che per me e per la maggior parte della troupe, che aveva già collaborato ad altri miei film o conosceva già quel tipo di ambiente, la quotidianità era gestibile. Invece per chi veniva da Katmandu è stata tutta un’altra storia: eravamo a un’ora di volo dalla capitale, seguita da due giorni e due notti di viaggio in jeep e da altri quattro giorni di cammino. Non c’era Internet e il collegamento telefonico era pessimo: dovevamo usare cellulari satellitari. Anche il tempo lasciava parecchio a desiderare. Per la troupe internazionale, quasi tutta proveniente da località a livello del mare, uno dei problemi principali è stato il mal di montagna. Ogni giorno c’era qualcuno che doveva ricorrere all’ossigeno, e abbiamo dovuto chiamare più volte l’elisoccorso. Soffrivano tutti di nausea e capogiro. Per stare al caldo dormivamo in venti in una stanza di cinque metri quadri. È stata molto dura, ma sono anche nate molte amicizie importanti. Dal punto di vista del morale eravamo allineati, tutti lontani e isolati dai nostri cari, e questo ci ha resi più vicini: in posti del genere le occasioni di stringere legami forti aumentano notevolmente. In alta montagna sopravvive il più forte, non stai tanto lì a pensare al futuro, alla carriera o alla famiglia. Diventi più disponibile e generoso, e questa è un’energia che guarisce. Ti senti piccolo e insignificante, praticamente sei il medico di te stesso. Ecco perché siamo sopravvissuti. Attraverso questo processo, diversi membri della troupe hanno avuto una vera epifania. C’è chi ha smesso di bere alcol e correre dietro ai soldi e ha iniziato a riflettere su sé stesso. Per me, e per le persone a me più vicine, è stata una profonda lezione di vita.

LC: Gli attori sono quasi tutti non-professionisti della zona. Spesso però nelle comunità rurali i membri più anziani dei gruppi autoctoni non si lasciano fotografare per paura che gli venga “rubata l’anima”: come ha funzionato il casting, e come hanno reagito gli attori vedendosi nel film?

MBB: Molte delle persone con cui volevo lavorare erano timidissime e si rifiutavano di comunicare in nepalese, perciò ho cercato di imparare io un po’ di tibetano. I più vecchi poi non lo parlavano del tutto. Durante il casting uno di loro disse che fare l’attore era come andare in senso contrario alla meditazione, se non proprio al buddismo: cercare la fama e il successo favoriva l’avidità e la distrazione, meglio restare con i piedi ben piantati per terra, nascosti in una spelonca. Ecco perché una volta si meditava in casa o nelle grotte, lontani dal mondo esterno e dal chiacchiericcio. Alla fine, per mettere insieme il cast ci sono voluti cinque o sei anni. Gli attori erano quasi tutti della zona ed era la prima volta che recitavano, invece molte attrici erano anche cantanti. Nella realtà la protagonista, Thinley Lhamo, è una cantante d’opera. L’attore che impersona Rinpoche, Loten Namling, è anche lui cantante e vive a Zurigo: è venuto in Nepal apposta per il film. La parte più ardua da assegnare è stata quella della protagonista femminile. C’era in lizza una donna cinese, ma poi tra i problemi con il passaporto e il Covid non ha più potuto spostarsi. Ho girato parecchi Paesi per incontrare le comunità tibetane all’estero, ma il problema è che le generazioni più giovani residenti in Occidente non parlano bene la lingua tibetana e io volevo che gli attori parlassero il dialetto locale, quindi i non-locali hanno dovuto studiare le varie pronunce. Per il ruolo di Pema, Thinley, che è cresciuta a Katmandu, ha dovuto imparare sia il dialetto del posto, sia a lavorare a maglia; un membro della troupe sapeva usare i ferri e le ha insegnato. Nella nostra comunità gli uomini si facevano da soli i vestiti e anch’io ho imparato a sferruzzare un po’ da mio padre. A lei abbiamo insegnato a fare un maglione da zero, ci sono voluti due o tre mesi.

 

LC: Spesso nel film porte e finestre vengono usate come elementi compositivi e la cinepresa è quasi sempre ad altezza uomo. Quanto alle scene girate all’esterno, i paesaggi sembrano infinite distese di neve: come hai fatto a portarli sullo schermo?

MBB: Non trattandosi di una storia d’amore, mi sono sforzato di decostruire la bellezza. Non volevo romanticizzare l’idea di montagna: la vita dei locali è faticosa e piena di rischi, sono solo coloro che vengono da fuori a vederla solo come una cosa bella. Il mio obiettivo era trasformare la montagna in uno dei protagonisti della storia, evitando l’approccio documentaristico o alla National Geographic. Per le scene girate al villaggio l’idea è stata fin dall’inizio quella di usare finestre minuscole, perché quasi tutte le case di montagna hanno finestrelle piccolissime per far circolare l’aria o per guardare fuori. Spesso però a causa del freddo ce n’è solo una, o neanche quella. La gente le usa come delle lenti attraverso cui osservare gli altri e il mondo esterno. Anche noi abbiamo sfruttato queste piccole aperture come ponti per passare dalla realtà alle sequenze oniriche nei toni seppia. Per quanto possa sembrare strano, abbiamo incorporato anche molte riprese con i droni. Per renderli irriconoscibili, li facevamo volare rigorosamente ad altezza uomo. Volevamo che gli spettatori si sentissero un po’ dei testimoni in presa diretta, perciò abbiamo usato angolazioni frontali. Come regista ci tenevo a bilanciare aspetti tecnici e tradizioni locali, collocando il pubblico al centro dell’esperienza.

 

LC: Possiamo soffermarci un momento sul maglione che nel corso del film Pema sferruzza per Tashi? Anche la maggior parte dei personaggi locali indossa indumenti fatti a mano, mentre Ram Sir [Karma Shakya], l’insegnante di Katmandu che segue Dawa, il fratello adolescente di Tashi, indossa vestiti comprati. Come hai scelto e reperito i costumi?

MBB: Sul set non avevamo costumisti. Con un cast e una troupe di appena 22 persone lavoravamo tutti in modalità multitasking e dei costumi mi sono occupato io stesso. Per sottolineare il contrasto fra gli abitanti del villaggio e Ram Sir, che viene da fuori, ho chiesto all’attore di usare i suoi vestiti. È un uomo ricco di famiglia e dal suo guardaroba si vede benissimo. Per il suo personaggio, che vive in montagna da qualche anno, preferivo degli abiti usati e lui me ne ha mandati tantissimi, semplici e meno semplici, che poi abbiamo selezionato insieme allo scenografo. Per una scena alla luce del fuoco il costume originale però non funzionava, così in realtà la giacca che Ram Sir indossa è del direttore della fotografia!

 

LC: L’idea di collaborazione e aiutare l’un l’altro rischia di fare idealizzare la vita delle piccole comunità, ma sono proprio i membri della comunità di Pema a spettegolare su di lei, che è parte del motivo per cui decide di intraprendere questo viaggio così rischioso. Gli esseri umani si comportano nello stesso modo ai quattro angoli del mondo?

MBB: Esatto, sì. Vivere in comunità piccole come quelle isolate di montagna può essere bellissimo: tutti si aiutano a vicenda, ma allo stesso tempo l’atmosfera può diventare tossica, perché tutti conoscono i segreti di tutti, anche i più vergognosi. In città nessuno viene a chiederti come stai o si preoccupa per te, ciascuno è preso dalle proprie faccende e c’è gente ovunque, ma la tua vita resta privata. Insomma, ogni cosa ha dei lati positivi e dei lati negativi.

LC: E poi c’è la questione importantissima dell’istruzione. Il fratello di Pema si perde il matrimonio perché sta studiando e Dawa [Karma Wangyal Gurung], il più giovane dei tre mariti-fratelli, viene preso in giro perché vuole fare il pilota anziché l’agricoltore. Lo scandalo del suo insegnante privato mette in luce le difficoltà di farsi un’istruzione in questo contesto: un quadro che riflette la situazione attuale nei villaggi montani?

MBB: In realtà questo è più un riflesso della mia infanzia. A sei anni volevo già fare il regista, ma il mio secondo sogno era diventare pilota, come Dawa. L’idea mi affascinava perché da bambino in occasione delle visite del re vedevo arrivare gli elicotteri. Lassù tutti i bambini ammiravano tantissimo i piloti. Io mi domandavo cosa ci fosse dietro quelle vette, immaginavo di superarle e di andare a esplorare il mondo, e mi sentivo intrappolato. Assomigliavo a Dawa, e poi più a Tashi: anche io sono scappato di casa. A questo punto della mia vita invece mi rivedo in Pema, sto cercando me stesso e mi sforzo di essere più compassionevole. Avere una buona istruzione in montagna resta comunque difficile. La maggior parte dei bambini va a scuola, ma la mancanza di bravi insegnanti di inglese è un problema enorme: molti miei compagni hanno abbandonato perché non superavano l’esame d’inglese. Imparare la lingua è un incubo per chi sta in montagna, spesso i genitori devono investire i loro risparmi per far venire degli insegnanti dalla città. Le cose però cominciano a migliorare.

Mio padre era un funzionario statale che faceva un po’ di tutto: per dirne una, gestiva una sala di cinema. Quando avevo cinque o sei anni mi ci portava. Era anche fotografo, e quando doveva spostarsi per lavoro io lo seguivo. Mi prendevano in giro perché ogni sei mesi cambiavo scuola. Il risultato è che i miei amici vengono tutti dal mio villaggio, non sono miei ex compagni di scuola. Mentre giravo The Black Hen chiesi a mio nipote di farmi da assistente alla produzione, e così nel 2018 lui è finito a Berlino e pur non avendo esperienze pregresse ha vinto un premio con un suo corto [Songs of Love and Hate]. Un altro, uno del villaggio che aveva lavorato per me come set runner, oggi è il principale scenografo del Paese, e molti miei parenti sono diventati registi, direttori della fotografia, production designer… praticamente il mio villaggio intero si è dato al cinema! Ci sono tanti ragazzi che aspirano a fare film, e se le idee sono buone io mi sento in dovere di guidarli e produrli.

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A sei anni volevo già fare il regista, ma il mio secondo sogno era diventare pilota, come Dawa. L’idea mi affascinava perché da bambino in occasione delle visite del re vedevo arrivare gli elicotteri. 

LC: L’avventura di Pema è anche un viaggio di ricerca e iniziazione. Una via verso la semplicità, tra le cose forse in assoluto più difficili da conquistare. Rimasta sola, però, Pema si rende conto di avere già dentro di sé tutte le risorse che le servono: una prospettiva che potrebbe aiutarci a rallentare il passo in questa nostra vita così frenetica?

MBB: Io posso parlare della mia esperienza. Nella vita quotidiana, anche quando meditiamo o facciamo un ritiro, se siamo in mezzo ad altre persone spesso guardiamo fuori di noi. Per guardare dentro e riconoscere le nostre qualità interiori dobbiamo chiudere porte e finestre. Io credo che ogni essere umano abbia lati buoni e lati cattivi. La compassione e la meditazione sono alla portata di chiunque, ma raramente guardiamo in noi stessi. L’unico modo per farlo è restare da soli, circondati dalla natura, anche se non necessariamente in montagna. Allora le porte del viaggio interiore si schiudono automaticamente e cominci a intravvedere la tua forza: fino a dove puoi spingerti, dove arriva la tua saggezza. Per Pema non si tratta soltanto di scoprire la propria sensibilità. Il motivo principale per cui volevo una protagonista femminile era esplorare la mia energia femminile. Spesso i giornalisti mi chiedono se in quanto regista uomo è stato difficile realizzare questo film, però in realtà l’ho voluto io. Se una donna si comporta in modo spavaldo o audace le danno del maschiaccio, magari, ma quella forza lei ce l’ha dentro da sempre. Allo stesso modo gli uomini possono mostrare accoglienza e compassione, attributi dell’energia femminile. Io volevo scoprirmi anche come essere umano, come uno scienziato che conduce un esperimento di laboratorio, ed è stato molto interessante. Oltre a fare film, insomma, per me è importante fare un’esperienza interiore.

 

LC: In questo momento come sta andando la promozione, e quali saranno le tue prossime avventure accademiche e cinematografiche?

MBB: Ormai il lavoro è fatto e il processo concluso, quel che succederà da qui in avanti non è nelle mie mani. Mentre ero a Berlino per il festival ho scelto di non partecipare a feste ed eventi. C’erano produttori e investitori che avevano chiesto di incontrarmi, ma io sono andato nella direzione opposta. Preferisco meditare, camminare e leggere. Ogni giorno. In questo senso sono fortunato, perché successo e fallimento non mi assillano troppo. Non tutto ha sempre bisogno di risultati, a volte è meglio nutrire meno aspettative. Io sono già contento così, ho già trovato quello che cercavo con questo film: la mia crescita interiore.