News  ·  16 | 08 | 2024

Riflettori puntati su Joqtau di Aruan Anartay

Stefan Ivančić, membro del comitato di selezione, ci parla di questo affascinante lungometraggio dal Kazakistan, uno dei film del Concorso Cineasti del Presente.

Il cinema kazako – e più in generale il giovane cinema dell’Asia Centrale – è in crescita. Quest’anno, a Locarno77, sono stati presentati due film provenienti da questa regione: il lungometraggio d’esordio Joqtau di Aruan Anartay e il secondo lungometraggio di Olga Korotko Crickets, It’s Your Turn. Entrambi i film sono stati curati dal talentuoso direttore della fotografia Aigur Nurbulatova.

Joqtau è un viaggio poetico caratterizzato da immagini di straordinaria bellezza. La rappresentazione degli sconfinati paesaggi delle Steppe si distinguono, controcorrente, per la scelta di non esoticizzare l’elemento etnografico dell’ambientazione. Il film segue il viaggio di Darkhan (Yermek Shynbolatov) e Elena (Irina Balkova), una giovane coppia che si reca in campagna per visitare Sagat, nonno di lui. Il giovane Darkhan, cresciuto dai nonni secondo un’antica tradizione nomade, non tornava nel suo Paese natale da diversi anni. Elena, la sua compagna, è una giovane donna russa dai capelli rossi, un’estranea (come lo è il pubblico), il cui punto di vista prende lentamente il sopravvento sul film. La fotografa racconta questo viaggio immersivo alternando il ruolo di narratrice a quello di semplice osservatrice.  

Con un approccio raro nel cinema post-sovietico, Joqtau unisce una storia di finzione con scorci di realtà, conferendo al film, a tratti, di un’aura documentaristica. All’inizio del film apprendiamo che “Joqtau” è un canto funebre dei kazaki, un modo di onorare la vita del defunto, una tradizione per superare il lutto e il più antico genere di poesia delle tribù nomadi. Questo è esattamente ciò che Joqtau incarna: un movimento che riconnette alle origini, un viaggio nel passato con una prospettiva contemporanea e, allo stesso tempo, un tributo alla vita del nonno di Darkhan.

La bellezza del lavoro di Anartay risiede nella capacità di creare esperienze profonde con mezzi minimi e in modo non pretenzioso: uno sguardo, un attimo di silenzio, la luce del sole su un corpo, il movimento della telecamera. Tutti questi elementi veicolano un messaggio e un significato emotivo con la stessa forza con cui potrebbero farlo le parole, se non di più.

Durante il film apprendiamo che, tradizionalmente, i villaggi erano separati dai cimiteri da un corso d’acqua, un fiume che divideva la vita dalla morte sia fisicamente che simbolicamente. Scopriamo inoltre che solo le vecchie generazioni parlano kazako, mentre i giovani, che come i loro genitori parlano quasi esclusivamente russo, cercano di riappropriarsi della loro identità kazaka in un mondo post-sovietico. Questi elementi contrastanti, e altri ancora, sono aspetti ricorrenti di un film che cerca di ritrarre l’intersezione tra modernità e tradizioni. Eppure la pellicola non è caratterizzata da paura, pregiudizi o nostalgia, ma da un approccio di rispetto e comprensione. Il nucleo drammatico di Joqtau non è dunque un conflitto tra passato e presente, ma piuttosto una riflessione su come questi due mondi possono, mano nella mano, affrontare il futuro.