News  ·  13 | 08 | 2024

Il favoloso mondo di Claude Barras

Occhi tondi, coraggio e un grande cuore: otto anni dopo Ma vie de Courgette (2016) il maestro dell’animazione Claude Barras porta a Locarno77 Sauvages, una nuova straordinaria storia in stop-motion, ambientata questa volta nelle foreste pluviali del Borneo.

Di Laurine Chiarini
Tradotto da Tessa Cattaneo 

©Davide Padovan

Nel suo lavoro artistico, Barras mantiene viva l’eredità dell’ambientalista e difensore dei diritti umani svizzero Bruno Manser, che visse con la tribù dei Penan in Malaysia dal 1984 al 1990. Durante nostra conversazione telefonica, Barras, vincitore del Locarno Kids Award La Mobiliare 2024, mi ha parlato di quanto Sauvages (2024) sia radicato nelle origini contadine della sua famiglia, del perché gli orfani siano sempre dei personaggi epici e di come si possano ottimizzare i movimenti della bocca di un pupazzo quando un animatore può filmare solo quattro secondi al giorno. 

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Non bisogna inoltre dimenticare che un film d’animazione è un'avventura umana che si protrae per diversi anni.

Laurine Chiarini: Girato a Martigny, nel Canton Vallese, il film ha contribuito a far conoscere il Vallese nel mondo dell’animazione in stop-motion. Com’è stato lavorare in Svizzera con un team internazionale? 

Claude Barras: Subito dopo Ma vie de Courgette, una co-produzione svizzero-francese, mi venuta l’idea per un altro film in stop-motion con un approccio artigianale e un budget relativamente modesto. Nonostante il nostro budget fosse inferiore rispetto a quello di registi come Tim Burton o Wes Anderson, abbiamo dovuto cercare l’appoggio di due o tre Paesi per potere finalizzare la produzione. Non bisogna inoltre dimenticare che un film d’animazione è un'avventura umana che si protrae per diversi anni. Per le riprese di Sauvages, l'idea è stata quella di riunire tutto il team in Svizzera – insieme ai giovani talenti dell'animazione nazionale – dando a tutti l’opportunità di scoprire questa regione durante la lavorazione al film. Ospitare 50 persone sulle rive del lago Lemano sarebbe stato troppo complicato, inoltre desideravo trascorrere di nuovo del tempo nel Vallese della mia infanzia. È stata l’occasione ideale per conciliare lavoro e piacere. Mentre lavoravamo al film andavamo a fare escursionismo in montagna, un’attività che è stata molto apprezzata dai giovani animatori, abituati a vivere in un ambiente più urbano. Sebbene ci fossero alcune differenze culturali devo dire che l’atmosfera era fantastica, quasi come in famiglia. 

 

LC: Lo stop-motion richiede un notevole impiego di energie e risorse. Cosa ti ha spinto a scegliere questa tecnica invece del disegno o della computer grafica? 

CB: Vent’anni fa ho frequentato un corso post-laurea in computer grafica all’ECAL, che ho trovato molto interessante. Ho poi lavorato come tecnico e modellatore a Max & Co (2007) e ho capito che preferisco lavorare con i materiali, con la realtà e guardare le persone negli occhi invece che attraverso uno schermo. Provengo da una famiglia di contadini di montagna che viveva in un villaggio nel Vallese. Il mio legame con la realtà, la natura e il mondo vero si riflette nella pratica artigianale della stop-motion, così come nella comunità che si forma sul set quando l'intera squadra si riunisce intorno ai pupazzi in plastilina. Pensiamo e risolviamo problemi insieme. La stop-motion ci permette di trasporre l'animazione nel regno della realtà con un set reale, dei pupazzi e degli animatori, che è un po’come filmare con degli attori. 

 

LC: Una volta che avete finito di filmare che fine fanno i pupazzi di plastilina e i set?  

CB: Dipende. I pupazzi di Courgette sono stati in gran parte regalati alla Cinémathèque suisse, l’archivio nazionale del film. Il resto è stato distribuito ai produttori per workshop ed eventi. Nel caso di Sauvages, una parte delle scenografie, destinata a una mostra locale, è stata conservata sul luogo delle riprese. I pupazzi invece sono in parte a Ginevra, mentre il resto è stato distribuito a diversi produttori in Belgio, Svizzera e Francia, dato che il film uscirà contemporaneamente in questi tre Paesi a ottobre e verranno usati a scopi promozionali dagli animatori, dai tecnici della luce e anche da me per presentare il film al pubblico.  

LC: Quali difficoltà hai incontrato nella gestione della produzione di un lungometraggio in stop-motion? 

CB: La sfida principale è stata quella di rendere la produzione sostenibile, circolare e quanto più ecologica possibile. Purtroppo, l’impatto ecologico più grande dei film resta la distribuzione, perché il pubblico deve viaggiare per raggiungere i luoghi di proiezione, e questo è inevitabile. Anche affidarsi completamente al digitale per la distribuzione non cambia molto le cose perché i server richiedono energia ed eliminare del tutto le proiezioni sarebbe inutile, per varie ragioni. La sostenibilità è fondamentale per noi; abbiamo esplorato diverse soluzioni laddove era possibile. Il legno e molti dei materiali che usiamo sono riciclabili e abbiamo lavorato con compagnie locali con certificazioni di sostenibilità. Abbiamo fatto del nostro meglio per evitare l’uso di materiali inquinanti: gli alberi erano realizzati in cartapesta anziché in plastica. Per i pupazzi, che richiedono una particolare tecnica di fabbricazione, non è stato purtroppo possibile eliminare del tutto la colla epossidica e il silicone. Tuttavia, abbiamo utilizzato solo alcune dozzine di chili per oltre un centinaio di figurine, un livello considerato accettabile.  Una volta terminato il film, gli stampi in silicone sono stati fatti a pezzi e riciclati. Il legno e i tessuti sono stati messi all’asta a basso prezzo o inviati a centri di risorse principalmente a Sion o in Vallese. Abbiamo fatto tutto il possibile, ma anche dopo anni di riflessione, è impossibile raggiungere la perfezione. 

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Mi piace l’idea di lasciare qualcosa alla prossima generazione, proprio come l’ha fatto l’attivista svizzero Bruno Manser con la sua lotta per la protezione della foresta pluviale, affrontando le sfide del mondo attuale. 

LC: Quest’anno non solo proietterai il tuo film ma riceverai anche il Locarno Kids Award la Mobiliare, un premio destinato ad una personalità in grado di ispirare un pubblico giovane. Sauvages ha degli aspetti educativi: avevi in mente i bambini come pubblico di riferimento durante le riprese? 

CB: Come giovane padre e cittadino del mondo che coabita con altre creature viventi vorrei sempre a rivolgermi ad un vasto pubblico. Mi piace l’idea di lasciare qualcosa alla prossima generazione, proprio come l’ha fatto l’attivista svizzero Bruno Manser con la sua lotta per la protezione della foresta pluviale, affrontando le sfide del mondo attuale. 

 

LC: Quanti animatori ci sono nel tuo team? Come riesci a mantenere coerenza tra le immagini girate simultaneamente da persone diverse, in condizioni diverse e non sempre in ordine cronologico?  

CB: Il team era composto di 10 animatori e tre assistenti, che hanno lavorato a turni durante i 10 mesi di riprese. Il lavoro è organizzato nel modo seguente: gli assistenti preparano il set, eseguono test e girano scene semplici. Il responsabile dell’animazione non anima direttamente, ma definisce gli stili, fornisce istruzioni agli altri animatori insieme a me e da direttive agli attori. Garantire la coerenza delle immagini finali richiede una preparazione meticolosa. Le voci finali vengono registrate basandosi solo sullo storyboard, con segnaposti per gli effetti sonori e gli ambienti, che non sono ancora definitivi. In questo modo, il montaggio è praticamente stabilito prima dell’inizio delle riprese. Quando è possibile, le scene sono girate in ordine cronologico, permettendoci così di risparmiare tempo.  

Agli animatori non sono assegnati dei personaggi specifici, tutti lavorano su tutti i personaggi. Il responsabile dell’animazione è la persona chiave che si assicura che la coerenza sia mantenuta. Abbiamo creato insieme a lui una bibbia dei personaggi, con un copione per ognuno di loro. Per ogni personaggio, è stato necessario condurre test con 15-20 posizioni diverse: per esempio, un certo personaggio fa dei passi di un centimetro quando cammina; le sue sopracciglia, la sua bocca e le sue palpebre sono in una certa posizione quando è arrabbiato, quando è felice, eccetera. Questa “bibbia artistica” è la guida degli animatori, che poi la interpretano e filmano più o meno quattro secondi di tempo di visualizzazione al giorno. Le sequenze emotive sono quelle che richiedono più precisione. Antony Elworthy, il responsabile dell’animazione, ha fatto sì che ogni animatore avesse l’opportunità di dirigere alcune sequenze. È stato un bel modo di dar loro libertà e permettere alla creatività di fiorire. Quando conosci bene i tuoi animatori puoi rilevare delle variazioni da una sequenza all’altra – il che è un bene – ma il tutto rimane pur sempre coerente.  

LC: In altri film di stop-motion, come la serie Wallace e Gromit, alcuni personaggi non parlano perché farli parlare richiederebbe troppo tempo e risorse. Nei tuoi film, invece, tutti i personaggi parlano. Mi chiedo se questo renda il tuo lavoro molto più complesso. 

CB: Per Ma vie de Courgette avevamo sviluppato un sistema magnetico di bocche che si attaccavano ai volti dei personaggi. Questo sistema è stato perfezionato e riutilizzato in seguito. Questo tipo di processo è molto più veloce che rimodellare una bocca per ciascuna nuova sillaba o usare bocche meccaniche. Abbiamo eseguito dei test per stabilire il numero minimo di bocche necessarie per far parlare i personaggi e mostrare una varietà di emozioni. Per i personaggi principali avevamo 21 bocche, mentre per quelli secondari ne avevamo 12. Ovviamente meno bocche ci sono più velocemente possiamo lavorare, perché la scelta è più ridotta. Per via di vincoli tecnici e di tempo abbiamo dovuto decidere quali scene richiedevano 12 bocche per i personaggi principali e quali 21. Abbiamo mantenuto un certo livello di complessità per le inquadrature che lo richiedevano e meno per i piani ampi e le inquadrature di transizione. Le voci degli attori, infatti, delineano già quasi la metà dei personaggi, infondendo loro energia e vitalità. Siamo riusciti a convincere i produttori a registrare le voci prima, anche se è stato molto più costoso. Quando le voci vengono aggiunte dopo le riprese, si perde un po’ di espressività e qualità. Registrare prima ci consente di lavorare sulla messa in scena prima di filmare e poi di montare il film con le voci definitive. Questo ci aiuta anche a trovare un buon equilibrio tra gli sguardi silenziosi e l’espressività vocale.  

 

LC: Hai menzionato la storia di Bruno Manser come fonte di ispirazione. Il personaggio di Jeanne si ispira forse a figure come quelle della zoologa inglese Jane Goodall o della primatologa americana Dian Fossey? 

CB: Jeanne è un personaggio ispirato a Bruno Manser, Jane Goodall e Dian Fossey, tre figure che mi hanno profondamente influenzato durante l’infanzia e l’adolescenza. È anche ispirata da Laetitia Dosch, che ha dato voce al personaggio e si interessa agli esseri viventi e all'ecologia sostenibile. Negli anni Ottanta, l’ecologia era già un tema ampiamente discusso, prima che le lobby neoliberali facessero apparire gli attivisti ambientali come dei sognatori contrari allo sviluppo umano e ai comfort. Questa lotta era già sentita e urgente quando avevo 10 o 15 anni. Ero profondamente coinvolto e indignato dall’inazione politica e dai conflitti di interesse che distruggono il mondo. Sauvages è strettamente legato al mio passato contadino, un mondo che è cambiato radicalmente dai tempi dei miei nonni. Oggi è proprio il modo in cui produciamo il cibo ad avere l'impatto maggiore sul clima. Tutto ciò mi ha fatto aprire gli occhi e mi ha spinto a combattere. Questa battaglia è una delle principali forze motrici del film. 

 

LC: I membri del popolo Penan che hai incontrato erano familiari con l’animazione stop-motion? Qual è la loro opinione su questa tecnica? 

CB: Quando ho incontrato il popolo Penan nella giungla del Borneo, ho mostrato loro alcuni segmenti di Ma vie de Courgette su un computer, tradotti da una guida del fondo Bruno Manser con cui viaggiavo. I pupazzi stop-motion ricordano ai Penan le sculture che creano dalla resina cristallizzata degli alberi e che a volte bruciano durante le preghiere. Questa tradizione ha ispirato la scena in cui il nonno racconta alla nipotina la storia della pantera per spiegarle le loro origini. Questo aspetto mi commuove, poiché i pupazzi che usiamo sono anch’essi uno specchio sciamanico delle nostre emozioni. Del resto, il cinema ha radici molto antiche. Le persone si riunivano nelle caverne, con il fuoco che illuminava i dipinti sulle pareti, e ascoltavano delle storie mentre li osservavano. Nella grotta Chauvet, ci sono dei dipinti che sembrano sequenze animate, come la riproduzione artistica del movimento dei cavalli. I Penan creano anche degli oggetti in miniatura come giocattoli per i bambini. Li abbiamo coinvolti nella realizzazione degli oggetti di scena: alcuni piccoli zaini dei personaggi e delle cerbottane sono stati fatti da loro. 

LC: Nel film, Kéria e il piccolo orangotango Oshi sono entrambi orfani. È inevitabile pensare a Courgette, la cui forza è anch’essa nata dalle avversità. 

CB: Lavorando su film per bambini, la figura dell’orfano mi ha profondamente ispirato. Sia adulti che bambini condividiamo tutti la paura dell’abbandono. L’archetipo dell’orfano che supera gli ostacoli per trovare amore, fiducia e una famiglia è estremamente affascinante. Da bambino, amavo storie come quelle di Heidi e Bambi, degli eroi orfani che hanno ispirato le storie che racconto oggi nei miei film per bambini. Durante la mia ricerca, ho partecipato a conferenze all’ONU e ho scoperto che, nei Paesi non democratici, gli attivisti ambientali corrono rischi maggiori rispetto a quelli politici; devono affrontare milizie e forze neoliberali molto più potenti delle loro stesse organizzazioni. Kéria incontrerà un elemento di violenza quando scoprirà il segreto della sua famiglia. 

 

LC: Dal punto di vista linguistico, il film passa dalla lingua Penan, non sottotitolata, al dialetto "vaudois" di Jeanne, un tocco locale franco-svizzero che spicca nella giungla del Borneo. Questi aspetti e il contrasto con le espressioni locali potranno essere conservati nel doppiaggio? 

CB: Il doppiaggio sarà sicuramente una delle nostre sfide più grandi. Abbiamo fatto qualche test, in linea di principio, dovrebbe essere possibile tenere le parti in Penan senza alterarle doppiando solo i dialoghi in francese. Accettiamo qualche leggera incongruenza. Per ora vogliamo provare a testare il doppiaggio in tedesco e inglese, scegliendo degli attori con delle voci che si avvicinano il più possibile a quelle della versione originale. Un’altra lingua però comporta anche un cambiamento radicale di tono. Un’altra opzione sarebbe quella di far doppiare tutti i dialoghi di un personaggio dallo stesso attore, che potrebbe mimare foneticamente le parti in Penan. L’idea è quella di trasmettere il fatto che ci troviamo in un Paese esotico e allo stesso tempo immergere il pubblico in una realtà che sembra famigliare. Allo stesso tempo, è importante trovare un equilibrio tra la necessità di mantenere una distanza dal mondo selvaggio e quella di rendere i personaggi più accessibili agli spettatori. 

 

LC: In città, Selaï, proveniente dalla foresta pluviale, è chiamata selvaggia. Il padre di Kéria definisce i tagliaboschi come selvaggi. La connotazione della parola cambia a seconda di chi la usa e a chi è riferita. Siamo tutti, quindi, il selvaggio di qualcun altro?  

CB: Assolutamente sì, siamo tutti il selvaggio di qualcun altro. All’inizio il titolo del film aveva un punto esclamativo, poi un punto interrogativo, alla fine abbiamo deciso che enfatizzare l’ambiguità della parola non era necessario, perché è abbastanza evidente nei dialoghi. Nella nostra società gli strumenti intellettuali e la sfera della conoscenza sono legati alla scienza, in un sistema del quale facciamo tutti parte. Conosciamo noi stessi, altri esseri viventi e l’impatto che abbiamo sul mondo. È molto interessante, con il potere della conoscenza è possibile raggiungere un punto di svolta. Il nostro potrebbe permetterci di riconciliarci con la natura, che ci procura l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo.  

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Ero riluttante a includere un cellulare nel film, ma non potevamo ignorarlo poiché le giovani generazioni sono costantemente immerse in queste tecnologie. Non possiamo semplicemente dire loro che sono sbagliate, dobbiamo interagire creativamente con esse, per ispirare speranza nel mondo di domani, come sarà tra 10 o 20 anni.  

LC: Quando Kéria scopre le tradizioni dei suoi antenati si riavvicina alle sue origini. Ci suggerisci di esplorare il nostro passato per comprendere meglio il nostro futuro? 

CB: Ho letto non pochi filosofi di vita, come Baptiste Morizot e Vinciane Despret. Non si tratta di una critica alla modernità né di un’idealizzazione del passato, ma di un modo per vedere come questi due aspetti possano fondersi e generare qualcosa d’innovativo. La modernità racchiude sia la distruzione del mondo che il rispetto e la tolleranza. Dobbiamo affrontare tutto questo con una mentalità più flessibile e trovare un equilibrio tra queste due dimensioni. È però anche vero che negli ultimi 50 anni abbiamo vissuto un periodo in cui la modernità ha tentato di rendere le tradizioni del passato obsolete a favore di una competizione per la velocità, l’innovazione e la rivoluzione tecnologica. L’idea di una crescita infinita deve, prima o poi, arrivare a una fine, anche se non so ancora quando o come. Se la transizione non avviene in maniera conscia e coordinata sarà sicuramente spiacevole per tutti. 

 

LC: Nel film, il cellulare viene sia ridicolizzato che presentato come uno strumento efficace per denunciare le azioni delle compagnie forestali. È davvero necessario utilizzare le nuove tecnologie per sensibilizzare i giovani sui temi ecologici e sulla biodiversità? 

CB: Ad un certo punto del film Jeanne dice che non ha un telefonino perché “è il diavolo”. Io ho un telefonino e un computer, mi piacerebbe potermi disconnettere dal mondo digitale ma so che viviamo in una società dove questo sarebbe quasi impossibile. È pretenzioso ripudiare completamente questi strumenti, anche se sono progettati per imprigionarci e possono essere mal utilizzati. L’idea è di mostrare che possono anche essere usati anche per fare resistenza, per protestare e per stare connessi ad altri che combattono la stessa battaglia. Ero riluttante a includere un cellulare nel film, ma non potevamo ignorarlo poiché le giovani generazioni sono costantemente immerse in queste tecnologie. Non possiamo semplicemente dire loro che sono sbagliate, dobbiamo interagire creativamente con esse, per ispirare speranza nel mondo di domani, come sarà tra 10 o 20 anni.  

 

LC: Infine cosa possiamo augurarci per Sauvages?  

CB: Mi auguro una proiezione straordinaria in Piazza Grande, uno dei luoghi più belli per presentare un film, a patto che non piova. Inoltre, spero che il film venga visto da un vasto pubblico, affinché il suo messaggio possa raggiungere il maggior numero di persone possibile. La distribuzione sarà accompagnata da una campagna di consapevolizzazione in collaborazione con la fondazione Bruno Manser, Greenpeace e altre organizzazioni. Ognuna di loro proporrà delle azioni che gli spettatori possono sostenere facendo una donazione o cambiando le loro abitudini giornaliere in modo da ridurre il loro impatto ambientale. Queste iniziative sono destinate a coloro che desiderano mettere in pratica il messaggio del film attraverso gesti concreti.