News  ·  14 | 08 | 2024

'Siamo solo una parte rumorosa dell’orchestra': Ben Burtt sui suoni di Guerre stellari e Indiana Jones

Di Keva York
Tradotto da Tessa Cattaneo

©Ep2-Lucasfilm

Così come Indiana Jones ha esplorato terre lontane alla ricerca di reliquie imbevute di poteri soprannaturali, così anche Ben Burtt ha cercato a lungo suoni con il potere di dare vita all’immagine cinematografica. Ancora vent’enne, Burtt è stato incaricato dalla Lucasfilm di progettare i suoni di quello che sarebbe diventato Guerre stellari (1977), un progetto che – grazie alla creazione di suoni iconici come il ronzio delle spade laser, il respiro pesante e macchinoso di Darth Vader e gli adorabili bip di R2D2 – non solo avrebbe ridefinito i principi degli effetti sonori nel genere science-fiction, ma avrebbe lanciato la sua carriera nell’iperspazio. L’innovazione di Burtt risiede nella sua sensibilità al potenziale dei suoni del mondo reale: invece di affidarsi ai sintetizzatori ha preferito trovare ispirazione nel mormorio di un proiettore o nel crepitio di un cavo di microfono rotto. 

Grazie ai suoi contributi prima alla trilogia originale di Guerre stellari e poi alle dinamiche avventure di Indiana Jones e a E.T. l’extraterrestre (1982), Burtt ha aiutato a delineare la prima ondata di blockbusters Hollywoodiani. Ha poi continuato a lavorare ai prequel di Guerre stellari (come progettista del suono e editor), a due film di Star Trek – Star Trek (2009) e Into Darkness -Star Trek (2013) – e a WALL·E (2008).  

Prima che a Burtt fosse consegnato il premio Vision Award Ticinomoda a Locarno77, Pardo gli ha chiesto di condividere alcune delle storie della sua carriera pluridecennale come cacciatore di tesori sonori.

 

Keva York: Molti dei tuoi suoni più famosi, come per esempio la spada laser di Guerre stellari e la voce di E.T., prendono ispirazione da incidenti o oggetti della vita di tutti i giorni. Questo mi fa pensare ad Andy Warhol e a come era solito tenere sempre con sé il suo registratore e a chiamarlo sua moglie. Anche tu hai una relazione come quella di Warhol con la tua attrezzatura?  

Ben Burtt: Quando ho cominciato a lavorare per il suono nell’industria cinematografica ho realizzato che se avessi portato con me un registratore probabilmente avrei trovato delle cose molto interessanti e utili, anche se magari sul momento non avrei saputo esattamente cosa sarebbero potute diventare. Quando ho cominciato, nel 1975, durante i primi giorni di Guerre stellari, l’attrezzatura era gigante: avevo una valigetta di una ventina di chili dove tenevo l’equipaggiamento. Quando la portavo in vacanza la mia famiglia passava il tempo a chiedersi: “Cos’è questa cosa che viene con noi?”. Ma non avremmo il suono dei blaster oggi se non avessi portato con me quel registratore così pesante, svizzero in effetti, un Nagra. Stavamo facendo trekking in Pennsylvania quando ci siamo trovati al di là di un crinale vicino ad una torre radio e ci siamo imbattuti in alcuni cavi che tenevano su la torre, è lì che ho sentito quel meraviglioso suono, quel tvang. Ho detto: “Quella è una pistola laser”, e l’ho registrato proprio lì, sul momento. È stato un incidente, ma ero pronto. 

Oggi i registratori sono la grandezza di un iPhone, o anche più piccoli se vuoi che lo siano. Un giorno, forse 25 anni fa, quando stavo lavorando a La minaccia fantasma (1999), sono andato a comprarmi una bibita fredda. Il frigo produceva un fantastico ronzio: c’era qualcosa di rotto e le ventole sembravano parlare fra di loro. Ho preso il mio piccolo registratore e l’ho infilato dentro il frigorifero. Ho finto di guardare la merce per un po’ e quando sono tornato a prenderlo avevo questa registrazione magnifica. Quel suono è diventato un campo di forza elettrico scintillante.  

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Sia Lucas sia Spielberg erano molto aperti a suggerimenti – potevo sperimentare ed erano disposti ad ascoltare. Spesso non hai più questa opportunità al giorno d’oggi.

KY: Il suono giusto però non ti capita sempre casualmente tra le mani. So per esempio che creare la voce di R2D2 è stato difficile e che ci è voluto molto tempo per raggiungere il giusto equilibrio di suono tra robot ed espressività. Ci sono altri suoni che si sono rilevati sfuggenti? 

BB: Beh, è successo più per Guerre stellari che per altri film, perché Guerre stellari tratta di cose fantastiche e non esisteva precedente per quello che avremmo ascoltato. È stato quello il caso di R2: non sono certo che prima di allora nella storia del cinema fosse esistito un robot parlante che produceva suoni che non erano umani. Non potevo guardare al passato e dire: “Cosa ha da insegnare su questo argomento?” Ti sorprenderebbe però, anche in film ordinari, non di science-fiction ci sono delle sfide, perché i suoni dei film sono una caricatura del mondo naturale. È tutto soggettivo, non esistono regole.  

Le persone hanno punti di vista anche molto diversi su cosa è importante. Ricordo Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo (2008); alla fine del film ci sono due sequenze l’una di seguito all’altra. In una di queste un personaggio sta combattendo a colpi di spada tra due Jeep ed alcune piante lo colpiscono all’inguine: “bump, bunc, bang” – è comico. Non nominerò il regista [ride], ma voleva davvero un certo suono. Ci hanno lavorato per ore un mattino mentre io ero nell’altra sala a lavorare sul suono di una gigantesca macchina del tempo usata dagli alieni per scappare. È stato speso più tempo sul rumore di quelle piante che sulla macchina del tempo. Ogni tanto quando ci troviamo tra tecnici del suono ridiamo delle nostre esperienze, ci raccontiamo di quando dobbiamo soddisfare non solo noi stessi ma anche le persone per cui lavoriamo. Il miglior modo di affrontare la questione – ed è sempre più difficile farlo ai giorni nostri – è di conoscere il proprio cliente: a cosa sono sensibili, che cosa interessa loro. 

Sono stato molto fortunato con George Lucas, perché abbiamo lavorato nella stessa casa per alcuni anni. Pranzavamo insieme sul patio, passava a trovarti in camera e si poteva lavorare come in un workshop. Anche se esisteva una gerarchia – non era certo una democrazia, ma una dittatura benevola – c’era un flusso ininterrotto di comunicazione. Questo ha fatto di me un servitore molto più attento. Abbiamo avuto difficoltà con R2 per sei mesi. Ci incontravamo ogni tanto per ascoltare quanto ero riuscito a inventarmi, e, finalmente, ci siamo resi conto che stavamo vocalizzando i suoni che desideravamo, come due bambini quando giocano con i loro giocattoli. “R2 va lì e dice ‘bip bop bop bip’”. È così che abbiamo avuto l’idea di aggiungere una componente umana alla lingua elettronica di R2, per rendere l’idea che si trattasse di qualcosa con un’anima. Fino a quel momento avevamo solo suoni elettronici, il cigolio di tubature e cose simili, ma nulla che fosse prodotto dall’essere umano. Una volta avuta quell’idea il tutto ha cominciato a funzionare. Ci siamo riusciti perché stavamo lavorando insieme e ci conoscevamo bene. Sia Lucas sia Spielberg erano molto aperti a suggerimenti – potevo sperimentare ed erano disposti ad ascoltare. Spesso non hai più questa opportunità al giorno d’oggi, i registi in particolari sono molto coinvolti nella post-produzione. Si preoccupano molto più del taglio e degli effetti speciali. Non sempre ti è concesso di parlare con loro uno a uno quanto sarebbe necessario per sviluppare e portare a termine un’idea in suono. 

©Images Courtesy of Park Circus_Paramount ©Images Courtesy of Park Circus_Paramount
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Il tessuto del suono delle pellicole americane mi è divenuto molto famigliare. Ero in grado di distinguere se un film fosse della Paramount, della Universal o della Columbia, solo ascoltando gli effetti sonori.

KY: Vorrei chiederti anche di un suono che non hai creato ma che ti è molto a cuore, o che hai personalizzato: l’urlo di Wilhelm. In origine faceva parte degli effetti del suono di un film western del 1951 ed è possibile trovarlo in una moltitudine di film, ma è diventata un po’ la tua firma sonora. Cosa ti ha attratto di quell’urlo che tutti gli altri urli nella libreria sonora non avevano? 

BB: Oh caspita, ok. Quando ero un ragazzino, appassionato di suoni e film, uno dei miei hobby era quello di registrare i film che passavano in tv. Questo era molto prima che potessi registrare su cassetta, quindi connettevo il mio registratore alla tv e, se un film mi piaceva, lo registravo. Poi lo ascoltavo in cuffia. Così riascoltavo i film, per mio puro intrattenimento, ma poiché l’ho fatto per così tante migliaia di ore, presuppongo, il tessuto del suono delle pellicole americane mi è divenuto molto famigliare. Ero in grado di distinguere se un film fosse della Paramount, della Universal o della Columbia, solo ascoltando gli effetti sonori e potevo dare un’indicazione circa l’anno di produzione. Questo era possibile perché ogni studio aveva una sua libreria di suoni personale, come una firma. Tenevo dei libri nei quali mi segnavo tutte le volte che avevo sentito un determinato suono, un po’ come un ornitologo con i suoi uccelli, sai: “Oh, eccone un altro, quello ce l’ho”. 

Quell’urlo era in molti western della Warner Brothers e film fantascientifici che ho visto tra gli anni Cinquanta e Sessanta. A scuola di cinema, quando stavo lavorando al mio primo film, mi sono detto “Beh, sarebbe divertente rendere omaggio ad alcuni dei miei suoni preferiti della Hollywood classica”. Così ho aggiunto l’urlo di Wilhelm, ne avevo una copia dalla televisione. Richard Anderson – il mio partner di allora, poi abbiamo fatto I predatori dell’arca perduta (1981) insieme – ed io ci siamo fatti delle grosse risate inserendo quell’urlo nel film. Una battuta tra di noi, tutto qui. In quel periodo stavamo anche tagliando trailer di film kung fu e ci mettevamo l’urlo di Wilhelm…Richard ed io abbiamo preso strade diverse: lui è rimasto ad Hollywood, mentre io sono andato a nord per lavorare alla Lucasfilm. Ho messo l’urlo in Guerre stellari, quando quel soldato imperiale cade in una trincea elettrica, poi anche Richard lo metteva in uno dei suoi, ed io in uno dei miei, ci sfidavamo: “L’hai sentito?” È stato solo con la diffusione di Internet che la gente ha cominciato ad accorgersene. Qualcuno ha creato un sito e ha cominciato a tenerne traccia – è così che è diventato famoso, e me l’ha un po’ rovinato. Era una battura privata che è diventata pubblica. E all’improvviso a Skywalker Sound lo mettevano in ogni film. Peter Jackson l’ha messo nel Signore degli anelli, e in Titanic (1997), e così si è diffuso in tutto il mondo – un virus audio non intenzionale. 

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Provo grandissimo affetto per tutti gli Indiana Jones a cui ho lavorato. Il mio morale e quello del team erano particolarmente alti. Erano film d’avventura divertenti, e amavamo il fatto che fossero così gestuali.

KY: Dobbiamo parlare di Indiana Jones e l’ultima crociata (proiettato al Festival sotto il titolo Indiana Jones and the Last Crusade, 1989). Hai ottenuto un Oscar per il film, e quindi è già degno di nota, ma mi piacerebbe sapere perché hai scelto di presentarlo qui a Locarno. 

BB: Provo grandissimo affetto per tutti gli Indiana Jones a cui ho lavorato. Il mio morale e quello del team erano particolarmente alti. Erano film d’avventura divertenti, e amavamo il fatto che fossero così gestuali. Invece di trovarci nello spazio con robot, cose meravigliose e fantastiche, questo era un film con i piedi per terra: scazzottate, fuoco, barche, valanghe e frane. Lo preferisco in un certo modo, mi sento più a mio agio da un punto di vista creativo. Tutto era fisicamente presente, quindi creare e tagliare quei suoni – completando l’illusione cinematografica – è stato più soddisfacente di, per esempio, Il teschio di cristallo, nel quale gli animali e le auto sono tutti digitali. Sì, hai una sequenza di inseguimento d’auto, ma molte di quelle Jeep sono digitali e anche se c’è un fantastico lavoro dietro, non è la stessa cosa. Io lo vedo, e trovo che il suono sia meno soddisfacente. 

Ma L’ultima crociata in particolare trovo che non riceva l’attenzione che si merita. I predatori è il classico, e certamente lo amo, ma abbiamo imparato molto tra I predatori e L’ultima crociata. La tecnologia di riproduzione del suono ha fatto passi da gigante e noi eravamo lì proprio nel momento giusto. A quel punto avevamo trascorso sette o otto anni ad affinare le nostre tecniche come equipe del suono, penso che sia il nostro miglior mix. Mi sono sorpreso quando sono tornato a riprodurre quei film su grande schermo, sono molto fiero di quanto abbiamo fatto. Ho pensato “Beh, non è proiettato così di frequente, perché non farlo vedere”. È uno dei miei preferiti.

KY: La colonna sonora di Indiana Jones e Guerre stellari è stata composta da John Williams. Sono curiosa di sapere se foste isolati mentre stavate lavorando allo stesso film o se invece avete scambiato opinioni, o forse c’era un po’ di rivalità? 

BB: Un po’ ce n’era. Nella grande industria cinematografica la musica è sacra. È in alto su un piedistallo, mentre gli effetti sonori si trovano in basso, vicino agli addestratori di animali e ai fornitori di catering. Quando ho cominciato a lavorare nell’industria non c’era tradizionalmente nessun tipo di comunicazione tra il progettista del suono e il compositore. Arrivavi al mix con i tuoi effetti sonori e il compositore mandava la sua musica e chi si occupava del mix faceva del suo meglio per fare in modo che funzionasse. Alla Lucasfilm abbiamo cercato di esercitare un maggiore controllo, George non voleva che aspettassimo fino al mixaggio. Quindi, non appena avevano una scena assemblata, abbozzavo i sonori e aggiungevamo della musica temporanea. Seguivamo questo schema, proiettando il film per noi stessi periodicamente, cercando di lavorare al suono e alla musica nello stesso momento, anche se eravamo coscienti del fatto che non fosse la colonna sonora definitiva. John Williams era poi invitato per un incontro con, per esempio, Lucas e Spielberg per parlare di quale tipo di musica volevano e dove. Quando poi arrivava il momento del mixaggio finale ognuno più o meno sapeva che cosa stava succedendo, o almeno questo è quello che speravamo. Sapevamo che John William sarebbe arrivato con una colonna sonora straordinaria, ma non sarebbe stato qualcosa di completamente inaspettato, ci sarebbe stata una marcia qui, un motivo romantico lì, un tema suspence là… 

Nel corso di 10 anni, da Guerre stellari a L’ultima crociata, ho potuto collaborare sempre più con Johnny Williams. Per Il ritorno dello Jedi abbiamo parlato a lungo della musica degli Ewoks e ho potuto scrivere il testo della canzone che ha scritto [“Ewok Celebration,” o “Yub Nub”]. C’era forse una rivalità nascosta, certo. Stavo attirando molta attenzione per gli effetti sonori e gli effetti sonori non sono molto interessanti per i compositori, tendono a mascherare l’orchestra. E questo è vero, ma non puoi avere un inseguimento in moto senza il suono delle moto. Se ci sono musica e suoni nello stesso momento devi imparare a lavorare insieme. In fondo è tutta musica, noi siamo solo una parte rumorosa dell’orchestra.   

 

KY: A proposito dei prequel di Guerre stellari, non solo ne hai prodotto il suono, ma sei anche stato montatore della trama principale. Montare questi film deve essere stato molto difficile, per via delle innovazioni pionieristiche sul fronte della tecnologia digitale. Sono curiosa di sapere come hai ottenuto quel ruolo e quanta trepidazione hai sentito quando lo hai accettato.  

BB: Come ben sai, George Lucas è sempre stato interessato alle nuove tecnologie, e ha sempre investito molti soldi nel trovare nuovi metodi per fare film che avrebbero soddisfatto i suoi bisogni. Uno di questi era cercare di creare suoni digitali, un altro era manipolare le immagini digitalmente. Da quest’ultimo è nata la Pixar, per esempio – che inizialmente non era una compagnia che faceva film, ma uno strumento per lavorare le immagini digitalmente – e così anche l’EditDroid, che era il primo sistema di editing non lineare. Ero sempre in giro durante questa fase ed ero molto interessato. Sono stato un po’ un pilota di collaudo per EditDroid, perché la maggior parte di coloro che lavoravano come montatori a tempo pieno trovavano frustante lavorare con un nuovo strumento che smetteva di funzionare di tanto in tanto e non faceva tutto quello a cui erano abituati. Io ero pronto ad usarlo, perché volevo tagliare i film fatti in casa che stavo sempre filmando ed era un modo più veloce ed economico per farlo. Avevo anche studiato cinema in passato, non ero solo interessato ai suoni, avevo sempre voluto essere un regista, un auteur, come ogni altro studente di cinema, quindi avevo le competenze per montare film. Ho lavorato a molti progetti alla Lucasfilm e per clienti esterni, tagliando film IMAX digitalmente. Quei primi lavori erano tutti esperimenti. Le avventure del giovane Indiana Jones dal 1992 al 1996, sono state il vero campo di prova, abbiamo scoperto che potevi fare delle cose straordinarie nella sala di montaggio; potevamo digitalizzare un’immagine e poi cancellare un personaggio. Ricordo il giorno in cui abbiamo capito come si faceva. George Lucas lo ha visto, ed è stato un momento di: “Oh mio Dio, guarda cosa ci porta il futuro. Possiamo continuare a fare la regia anche dalla sala di montaggio, possiamo smontare delle immagini e rimetterle insieme in un modo diverso e possiamo farlo a piccolo prezzo.” 

Abbiamo lavorato molto in quel modo per i prequel. George Lucas stava cominciando a realizzare il suo sogno di sedersi sul divano e dire: “Proviamo quello, e facciamo quell’altro”. Mentre provavamo cose sempre più impensabili e folli l’attività nella sala di montaggio aumentava freneticamente e il tutto si faceva sempre più complicato. E poi c’erano i personaggi digitali, non ne avevamo mai avuti prima di Jar Jar Binks. Quella è stata tutta una scoperta: come filmi il riferimento per un personaggio digitale sul set e poi nella sala di montaggio come fai a creare una performance? Ripensandoci è stato tutto molto emozionante, quel sentimento di “tutto potrebbe succedere”. I prequel hanno cambiato il modo di fare film. Oggi quando dico che nessuno si impressiona più è perché questi sono ormai normali strumenti che ogni ragazzino ha con iMovie.  

©Images Courtesy of Park Circus_Paramount ©Images Courtesy of Park Circus_Paramount

KY: Hai mai la sensazione che il digitale sia un vaso di Pandora? La standardizzazione di quest’idea di “fare la regia anche dalla sala di montaggio”? 

BB: Certamente ci sono degli elementi da vaso di Pandora. Devi essere disciplinato con questa metodologia che è molto flessibile e che evolve rapidamente, perché ti permette di procrastinare. Quando era tutto fatto su pellicola il tempo era scandito da un processo molto più lineare. Costa molto apportare modifiche su pellicola, perché hai bisogno di una nuova copia dai laboratori. Non hai la libertà di cambiare qualcosa all’ultimo momento a meno che non sia una vera emergenza e sei pronto a pagare un mucchio di soldi. Il digitale al contrario non è caro, nel senso che la copia in sé non costa. Non sei costretto ad andare avanti allo stesso modo: posso salvare la mia versione come montatore, posso salvare la versione del regista, posso salvare una versione per ciascun produttore e lo studio può competere, tagliando il film con il loro montatore. Ottieni una moltitudine di versioni, così tante che diventa difficile tenerne traccia. Invece di raffinare il film, producendo la versione migliore nel poco tempo a disposizione, ora è più un gruppo di persone tutte con le loro versioni, che infine si scontrano al centro e devono in qualche modo trovare una soluzione.  

 

KY: Qualcuno deve trovarne il nucleo.

BB: Sì. Ed è radioattivo. È come la fissione, se non funziona esplode. Forse sto diventando troppo filosofico, ma dalla mia prospettiva e a quest’età, queste sono il tipo di cose che vedo. Amo le nuove tecnologie, sono molto convenienti. Posso montare un intero lungometraggio sul mio portatile e sulla maggior parte degli schermi uscirebbe bene. Mia figlia di 24 anni si occupa di montaggio, non è la sua professione ma ha imparato a farlo nel tempo, ed è veloce, niente la sorprende. È tutto un: “Oh, sposto questo di qui, e cambio quello”.  

 

KY: È cosciente del fatto che dovrebbe strapparsi i capelli dalla frustrazione? 

BB: Esatto, diventa difficile dire: “Aspetta un momento, è un lavoro difficile!” 

 

KY: Penso che sia ancora difficile creare qualcosa di valore. Spesso questa dimensione un po’ si perde. 

BB: Quella è sempre stata la sfida: stiamo facendo dei film migliori? In fondo stanno lavorando con questo dilemma da 150 anni, sai, ed esistono film incredibili in ogni epoca della storia del cinema. Non esiste un’epoca migliore delle altre, non funziona così per l’arte. Ci sono momenti in cui questi sono gli strumenti privilegiati, e poi in un altro momento si usano strumenti diversi e i miglior film migreranno dagli uni agli altri.