Il viaggio di Open Doors nel Sud-Est asiatico arriva in Mongolia. Una terra sconfinata, una terra di pochi, la terra di Gengis Khan. Una terra dove il cinema ha spazio, e teste, per (ri)germogliare.
North by Southeast: On the Road with Open Doors
Il viaggio di Open Doors nel Sud-Est asiatico arriva in Mongolia. Una terra sconfinata, una terra di pochi, la terra di Gengis Khan. Una terra dove il cinema ha spazio, e teste, per (ri)germogliare.
Estrema. La Mongolia è così, rimbalza tra vertici opposti. Tra l’essere gigante per geografia e minuscola per popolazione che la abita; tra l’essere per pochi - tre milioni appena - e l’essere stata per uno soltanto, Gengis Khan. Tra l’avere tutto lo spazio del mondo a disposizione per mettersi comodi e il non riuscire a star fermi, come racconta il 40% della popolazione nomade. Tra l’imponente passato sovietico e il giovane presente democratico, tra lo strutturato cinema di propaganda che fu, e il fragile cinema d’autore che è. O forse ancora no.
Pensare alla Mongolia è pensare a un larghissimo spazio fisico, e umano; dove in Svizzera puoi incontrare duecento persone in Mongolia alla seconda ti devi già fermare, fine degli incontri: due mongoli ogni chilometro quadrato. Il Paese meno densamente popolato del mondo, dominato dalla steppa, dal Gobi, e dalle cime degli Altai. Un milione e mezzo di chilometri quadrati per una manciata di città. Di cui una, Ulan Bator, la capitale, che tiene per sé un mongolo su tre. Là i cinema ci sono, là un cinema c’è. Giovane, con antenati dimenticati tra la fine di un dominio che si è portato via tutto e l’inizio di una democrazia che non ha avuto tempo per pensarci, al cinema.
Negli anni ’20 del secolo scorso il cinema mongolo era lo studente fuorisede del grande maestro sovietico. Maestranze, studenti e persone da allevare e formare per capire, tre lustri più tardi, che quello era lo strumento ideale per la propaganda. A metà anni ‘30 gli studi cinematografici nazionali a stampo sovietico, i Mongol Kino, forgiano i primi film nazionali, ma diretti da russi. E le opere, grazie alla potenza di fuoco distributiva socialista, arrivano ovunque nel Paese, azzerando distanze all’apparenza incolmabili. Ci vogliono altri quindici anni per veder crescere e prendere voce la prima generazione di cineasti mongoli, cresciuti, formati, capaci. A disegnare le più importanti pagine della storia del grande schermo sono Jigjid Deejid e Tsogt Taij, e dietro già scalpitano le nuove leve, pronte a far divampare “l’età dell’oro”. Il cinema mongolo c’è, e viaggia dal Gobi agli Altai. La sua voce però viene da occidente, ed ha l’accento sovietico. E quando quella voce tace, vent’anni più tardi, i cinema si spengono.
A inizio anni ’90, sciolto il blocco sovietico, i cinema chiudono o smettono di camminare. Stabili o nomadi che siano non c’è più nulla da far vedere. Diseredato con l’addio sovietico, il cinema mongolo si scopre nuovo e impotente. Dai dettati ben distribuiti si passa alle poesie senza gambe, con una voce squillante, ma pochi polmoni. Perso lo Stato si accendono i privati e liberato dal “niet” sovietico si risveglia Gengis Khan. Il migliore su pellicola? Cinese, per una storia beffarda che si ripete e si ripeterà ancora con il più celebre di tutti, Mongol di Sergej Vladimirovič Bodrov, nominato all’Oscar nel 2008: kazako. Conquistata la libertà artistica e creativa il cinema di Ulan Bator perde gli strumenti del mestiere: niente più finanziamenti, niente più distribuzione, niente più scuola. L’Unione Sovietica smette di giocare e si porta via il pallone. Giovani registi come Gankhuyag, Uranchimeg e Binder riescono a riaccendere una luce, ma non basta a illuminare il Paese, e il movimento.
Alle porte del ventunesimo secolo qualcosa succede, e arriva dall’Europa. L’autore belga Peter Brosens decide di lavorare nella terra di Gengis Khan e il cinema mongolo avverte e rivive la forza della gioventù. Le collaborazioni con Turmunkh Dorjkhandyn (State of Dogs, 1998) e Byamba Sakhya (Poets of Magnolia, 1999) indicano la via delle co-produzioni internazionali. Byambasuren Davaa, con The Story of the Weeping Camel (2003) conquista i produttori tedeschi, la Piazza Grande a Locarno, l’Academy a Hollywood (nomination) e il botteghino, con un milione di biglietti staccati. E le nuove generazioni? Studiano e cercano spazio, magari contando sull’enorme passione propulsiva proprio di Byamba Sakhya (Remote Control, 2013) e della produttrice - nonché sua moglie - Ariunaa Tserenpil, esempio pratico e attivo che il cinema mongolo, fatto da mongoli, c’è, esiste e ha voce. La voce e la determinazione tanto umile quanto nobile di Passion (2010), documentario di Sakhya dedicato proprio a quei cineasti che non hanno smesso di girare, quando intorno tutto quanto si era fermato: “Try to make a film without money!”.
Liberi ma poveri. I cineasti della Mongolia, cent’anni dopo gli esordi sovietici, possono godere della tanto desiderata libertà artistica, ma senza tasche. Estinto il sussidio statale, con un governo che fatica a inquadrare una politica concreta o una strategia a sostegno dell’industria, lo sguardo non può che rivolgersi ai privati. Poi però, mancando completamente una distribuzione, quel che arriva agli occhi del pubblico ha i colori dei blockbuster hollywoodiani. E il cane, chiaramente, comincia a mordersi la coda. Eppure qualcosa si muove. Si muove la tecnologia, fiato a basso costo per voci ormai afone, si muove la formazione, ossigeno essenziale per sperare in un’autorialità autoctona. Si muovono, ancora, Byamba e Ariunaa, le cui troupe vivono al 80% di maestranze locali, mongole. E si muove pure l’Arts Council of Mongolia, promotore e organizzatore del primo festival cinematografico del Paese nel 2010, nella capitale, l’Ulanbataar International Film Festival (UBIFF). Sì, qualcosa si muove.
A Ulan Bator d’altronde si sono riaccesi anche i cinema. E ancora una volta la scintilla è stata forestiera: grazie a un investimento privato coreano ecco i Tengis Cinema, che nella capitale aprono tre multisala tra il 2008 e il 2009. Ed è lì, nel buio in sala che il cinema mongolo riesce ad illuminare le notti del pubblico, piazzando le proprie locandine al fianco di quelle delle grandi produzioni americane. Il cinema mongolo c’è, e il pubblico della capitale lo sa. Ma gli altri? La Mongolia è periferia, è da lì a là, e fuori dai centri urbani i film non riescono a spostarsi. Restano in attesa che a mettergli le ruote sia il Governo avvertendo un’urgenza e una possibilità: i film quali mezzo di connessione di una popolazione sparpagliata. I film, il cinema, quali forma di espressione culturale al pari dell’enorme tradizione artistica mongola, dalla danza alla manifattura.
Se ne parla, ormai da vent’anni, ma la discussione è lenta. E il gli autori, con tutto il loro potenziale, aspettano. Sapendo però che ora fare cinema in Mongolia è una pazzia un po’ meno folle di ieri.
Poi c’è il cinema mongolo di oggi. Il cinema del 2020, il cinema del triennio in cui Open Doors lo ha scoperto e conosciuto, consigliato e accompagnato. Un cinema specchio di un Paese che ha voglia di essere e raccontarsi, in cui spesso e volentieri la forza trainante è femminile, trasversale alle generazioni e coerente nello spirito e nell’intento: crescere. Il cinema di Ariunaa Tserenpil e Lkhgvadulam Purev-Ochir, di Uran Sainbileg e Odgerel Odonchimed. Quattro fotogrammi di un cinema in movimento.
Alessandro De Bon