Kasia Smutniak, un premio è un’occasione per ripercorrere il suo percorso artistico. Quando è scattata la scintilla e la scelta di diventare attrice?
La scintilla probabilmente è scattata sul set del primo film, Al momento giusto di Giorgio Panariello. Ero circondata da persone stupende, divertenti. Ho capito cosa volesse dire condividere un progetto. Vengo da una famiglia militare, dove nessuno si è mai occupato di arte. Non so se è stata proprio una scintilla, è stata sicuramente una curiosità, ho cominciato a fare questo lavoro per curiosità.
Quanto è difficile per un’attrice dotata di grande bellezza riuscire a conquistare spazi e ruoli capaci di uscire da quelli imposti dai cliché e dagli stereotipi?
Fin dall’inizio, istintivamente, ho scelto i ruoli dove potevo dimostrare qualcosa forse più a me stessa che agli altri, lontani da certi stereotipi.
Lei ha lavorato con grandi registi come Paolo Sorrentino, i fratelli Taviani, Ferzan Özpetek. Ce n’è uno che è stato fondamentale per lei?
Da ogni esperienza e collaborazione con un regista esco arricchita: è sempre diverso, è questo che mi affascina.
Il regista che mi ha fatto scoprire questo mestiere, dandomi la stessa libertà di espressione che ho sempre cercato negli altri progetti, è stato Peter Del Monte. Peter aveva questo modo di lavorare, che ti permetteva anche di stare accanto al regista, alla storia in una maniera intensa, personale, elegante.
Ricordo poi la magia del set di Paolo Sorrentino, della dolcezza di Mazzacurati, dei bellissimi racconti di un cinema che mi ha fatto sognare con i fratelli Taviani. Penso anche ad Antonio Frazzi, così come all’intensità del set che si mischia alla vita vera che ho vissuto insieme a Ferzan Özpetec, e pure a Silvio Soldini, con il quale ho appena finito un progetto. Mi è difficile nominarli tutti, ce ne sono stati davvero tanti molto importanti per me.
Ci sono dei criteri irrinunciabili nella scelta di un ruolo?
Tanti elementi devono allinearsi. Come prima cosa, devo capire cosa posso portare io a quella storia. Poi viene il personaggio, meglio se diverso da me, che mi metta in difficoltà. Non amando ripetermi, mi piacciono i personaggi che non ho ancora interpretato: per svegliarsi all’alba e stare lontano da casa per mesi deve valerne la pena.
Ha un metodo di lavoro nella costruzione del personaggio che predilige?
Non ho un metodo, ho imparato tutto quello che so sul set. Alcuni film richiedono una preparazione maggiore, come Loro di Paolo Sorrentino e Allacciate le cinture di Ferzan Özpetk. Anche Marito e moglie di Simone Godano, in cui interpretavo un uomo.
In Perfetti sconosciuti, il testo era così bello che non c’era bisogno di fare nulla. È stata una partita di ping-pong, neanche di tennis, proprio di ping-pong, molto veloce. Mi nutro della verità che vedo negli occhi degli altri interpreti.
C’è un film che magari non ha avuto grande fortuna nei riconoscimenti a cui lei però lei resta profondamente legata?
I riconoscimenti non vanno di pari passo con il giudizio, essendo coinvolta emotivamente. Quando mi siedo a vedere un film e riesco a distaccarmi è come leggere un bel libro. Devo dire però che accade quando nel film ci sono poco. Poi non vado particolarmente fiera di alcuni film che hanno avuto successo.
Tra le sue interpretazioni che hanno riscosso più successo c’è sicuramente Nelle tue mani di Peter Del Monte, per cui ha vinto il Nastro d’argento europeo. Che ricordo ha di quel film e di Del Monte, da poco scomparso?
Ho un suo ricordo vivido, nonostante siano passati già tanti anni. L’esperienza di Nelle tue mani è stata fondamentale.
Ricordo che mi sono presentata al provino dicendo una bugia. Ha saputo che ero polacca ed era entusiasta. Mi ha detto: “Gli attori polacchi sono i più bravi perché hanno una base teatrale, sono estremamente preparati, si vede che tu hai queste qualità. Fai teatro?”. Non sono riuscita a dirgli di no, perché volevo fare il film. Mi ha chiesto quale teatro e gli ho detto dei nomi in polacco impronunciabili di compagnie teatrali inesistenti. Finito il film, gliel’ho confessato, rideva tantissimo.
Mi ha scelto per il ruolo di una madre afflitta da un grande dolore. Come potevo io, a vent’anni, una ragazza spensierata appena arrivata in Italia, interpretare quel ruolo? Mi ha scelta proprio perché ero completamente inconsapevole.
La sua direzione era precisissima, anche se lasciava gli attori liberi, in uno spazio deciso prima, certo, ma in totale libertà. Questa libertà l’ho cercata, questo tipo di intesa tra il regista e l’interprete, basata sulla totale fiducia l’ho cercata in tutti i progetti. A volte, mi sono avvicinata parecchio al quel modo di lavorare, ma è stato forse uno dei progetti che più si è avvicinato alla mia idea dell’arte.