The Old Oak inizia con una serie di fotografie di cittadini che urlano contro qualcuno. Dopo pochi secondi scopriamo che sono state scattate da Yara, una rifugiata di origini siriane. Si tratta di una presa di posizione?
Ken Loach – La ragazza è una fotografa, è un modo drammatico per entrare nella storia perché comincia con le foto che sta scattando. Sono rifugiati dalla guerra in Siria e arrivano in un villaggio nel Nord dell’Inghilterra. E la prima cosa che vede sono facce furiose che la minacciano. Che si lamentano. In questo modo capiamo la cultura anti-immigrazione che attraversa tutta l’Europa. Ecco la tensione che apre la storia. Due comunità, entrambe sofferenti e ostili l’una con l’altra. È il fulcro della storia e ci sei subito dentro.
Paul Laverty – È una bella sfida raccontare una storia con due comunità, ci sono complessità in entrambe. Yara è una fotografa, è nella sua natura essere curiosa. Vuole indagare e cercare di capire. Vuole scoprire cosa sta succedendo intorno a lei in questo nuovo mondo. A livello narrativo, spalanca le cose per noi e le regala una backstory molto interessante. Allo stesso modo ci aiuta a capire il rapporto con suo padre. In termini di struttura, ha davvero aperto un sacco di possibilità per noi.
Vorrei continuare con Yara, una delle sue battuta dice: «quando guardo in camera, scelgo di vedere speranza e forza». È il modo in cui vedete il mondo quando siete dietro la macchina da presa?
K.L. – Paul ha scritto una frase molto importante. Come ognuno che fa film in questo business, scegli quello che vuoi fotografare, scegli le storie da raccontare. La domanda chiave è: perché racconti questa storia? Perché hai scattato questa foto? Perché hai scelto questi personaggi? Perché questa situazione? Si tratta di trovare personaggi che hanno una storia semplice, ma che gettano una luce sulle tensioni nella società e nella realtà di quello che succede. Se scegli la storia giusta, guardi proprio dentro il cuore di come funziona il mondo.
P.L. – C’è qualcosa che ho imparato da Ken 30 anni fa. La domanda fondamentale è: perché questa storia? Oggi è una domanda fondamentale, dal momento che ci sono molte persone che vogliono raccontare grandi storie ma non ne hanno la possibilità. Dovremmo mettere in discussione chi commissiona e chi ha controllo sulle finanze e quali storie vengono raccontate. Ma come filmmaker e narratori, il solo sederci insieme con un pezzo di carta a chiederci: “quale è la miglior storia da raccontare?” è una domanda enorme che spero gli studenti qui a Locarno prenderanno in considerazione andando avanti nella vita.
Un’altra battuta del film dice: «la solidarietà non è carità»: penso sia un tema che lega molti dei vostri film come, ad esempio, My Name Is Joe. Ci vedete una connessione?
K.L. – Sì, penso sia un tema ricorrente. Si relaziona tutto alla lotta sociale tra quelli che sfruttano e quelli che vendono il proprio lavoro. Ed è un conflitto inconciliabile. Puoi risolverlo solamente cambiando il modo in cui la società è organizzata. Un vecchio proverbio inglese dice: “i poveri sono sempre con noi”. Certo, sono sempre con noi perché qualcuno continua a derubarli. Qualcuno sottrae loro soldi, al loro lavoro. Conviene a quelli che possiedono ricchezze dire che la soluzione è donare un poco. I sintomi di una società di classe produrranno inevitabilmente sempre ineguaglianza.
P.L. – È un tema che ricorre in tutti i nostri film. Bill Gates e Jeff Bezos parlano di quanto danno via in beneficenza. Sarebbe molto meglio se soltanto pagassero le tasse giuste. Risolverebbe molti problemi. È stato fantastico quando abbiamo fatto My Name Is Joe, non c’erano banchi alimentari. Adesso il Regno Unito ha tre volte il numero di banchi alimentari pro capite. È una scelta politica, ma viene fatta passare per una cosa inevitabile. È il modo in cui funziona il mercato, preferiscono fare carità alle persone piuttosto che prendere decisioni che aiutino veramente la gente. Adesso i conservatori stanno applicando una politica di welfare che, per esempio, supporterà soltanto i due figli maggiori. Così se hai un terzo figlio, non avrai nulla. Si tratta di una decisione precisa che mette centinaia di migliaia di bambini sotto la soglia di povertà e nessuno la discute, neppure il Partito Laburista. Anche loro hanno deciso di supportate la legge con Keir Starmer. Queste sono le domande chiave riguardo alla giustizia e al sistema. Ancora beneficenza.
Quanto è importante continuare a mostrare film come The Old Oak a festival come Cannes o Locarno?
P.L. – Penso che questa sia la quinta volta di Ken qui a Locarno. Per me invece è la prima. L’idea che ci sederemo a vedere il film con altre 8000 persone è magnifica. La trovo commovente. Il nostro cinema indipendente a Edimburgo, che ha portato avanti uno dei più vecchi festival al mondo, ha appena chiuso, non capendo quanto è importante per gli spettatori sedersi insieme. È una cosa splendida, specialmente in un mondo così individualista. La gente si fissa sui propri schermi, guarda i propri telefoni. E l’idea che migliaia di persone possano arrivare e sedersi insieme è qualcosa di profondo che merita di essere protetto, si mettono nell’ordine di idee che stanno per ascoltare delle storie di persone lontane dalla loro esperienza, si mettono nella posizione di dire: “mi metto nelle tue scarpe” e poi andranno a casa a discuterne. Non vedo l’ora di vederlo, sono molto grato al Festival.
Ultima domanda, forse un po’ maligna: potete scegliere due o tre dei vostri film per cui vi siete detti: “abbiamo fatto un gran lavoro”?
K.L. – Non puoi farlo. Sarebbe un modo per guardarci indietro in maniera critica. Nel momento in cui ti guardi indietro e ti dici quanto buono è stato un film, allora sei perso. Cerchi di correggere cos’hai sbagliato nell’ultimo film, di essere onesto, di grattare via qualcosa. Quali domande non abbiamo posto? Quali contraddizioni non abbiamo esplorato? Devi essere costantemente pronto ad andare avanti, mai a guardarti indietro.
Adriano Ercolani