News  ·  16 | 08 | 2024

'Il tuo entusiasmo deve essere più grande della tua paura'

In questa conversazione con Jane Campion – vincitrice di una Palme d’Or, un Oscar e ora premiata con il Pardo d’Onore Manor –, l’artista neozelandese racconta della sua carriera, del suo processo creativo meditativo e di come dare sempre il meglio.

Di Leonardo Goi

Jane Campion ©Patrick Swirc

Leonardo Goi: Che ricordo serbi del tuo primo festival? Hai vinto la Palma d’Oro per il miglior corto con Peel (1986), come è stata quell’esperienza?

Jane Campion: È stato molto traumatico. Avevano messo insieme alcuni miei corti e un lungometraggio che avevo fatto per ABC in un programma per la sezione Un Certain Regard, ma ci sono stati diversi errori tecnici. Cannes è molto conosciuto per le sue proiezioni incredibili, ma siccome dovevano proiettare tre film non hanno avuto tempo di testarli tutti. I sottotitoli uscivano dallo schermo in uno dei film, rendendoli praticamente illeggibili. È stato…beh è stato piuttosto terribile! [ride] Molte persone se ne sono andate perché faticavano a capire cosa e dove fossero i sottotitoli, o forse semplicemente non stava piacendo loro quello che stavano guardando. Mi sentivo male ogni volta che qualcuno usciva dalla sala. Ricordo di aver parlato dopo la proiezione con Pierre Rissient , il talent scout leggendario del festival che aveva ideato il mio programma. “È stato terribile”, gli ho detto, “mi dispiace”. Ma lui non era d’accordo, pensava che fosse andata bene, “come puoi dire una cosa simile?” ho esclamato, “Perché le persone giuste sono rimaste”. In effetti ho ricevuto delle recensioni positive sui corti, sono davvero piaciuti alla gente. Non capivo cosa stesse succedendo.

Ricordo che Pierre ci disse di non rattristarci se non avessimo vinto nulla. La notte della cerimonia di premiazione ci portò ad una cena fantastica sulle colline sopra Cannes. Non abbiamo visto nulla della premiazione! Non chiesi a nessuno come fosse andata, ero certa che non avessimo vinto. Stavamo tornando in hotel a piedi dopo cena, camminando lungo la Croisette, quando qualcuno dell’Edinburgh Film Festival si è avvicinato e mi ha detto: “Ei, congratulazioni, hai vinto!” Ho risposto: “Vinto? Cosa? Perché”, “Beh hai vinto per il miglior corto, il tuo nome è stato chiamato e qualcuno dall’Australia ha ritirato il premio per te”. In quel momento, dopo aver attraversato momenti difficili e alcuni incredibili, scoprire di aver davvero vinto un premio…i premi sono un po’ così, anche se magari non hanno un grande valore, è sempre qualcosa che puoi mostrare dicendo: “Guarda, eccolo qui!”. Sono tangibili. Sono veri. Quel premio era qualcosa che potevo mostrare anche a me stessa per ricordarmi che avevo preso la strada giusta. Potevo cominciare a pensare a un lungometraggio vero e proprio.

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Le persone possono essere molto poetiche nel modo in cui bramano, sono delusi da e amano qualcosa.

LG: Prima di studiare cinema ti sei dedicata all’antropologia, mi chiedo se questi studi abbiano influenzato il modo in cui poi hai approcciato il fare film.

JC: L’antropologia è stata una rivelazione per me. Avevamo un professore eccezionale alla Victoria University, a Wellington, dove ho studiato. Aveva lavorato con Claude Lévi-Strauss ed era un nome conosciuto nel campo dei miti. Questi mi affascinavano: come ogni cultura ha i propri miti e come questi miti, in modo sotteso, forse, possono descrivere le opposizioni e le frizioni che ci circondano. I miti sono sempre stati utili per raccogliere delle informazioni e descrivere gli aspetti più misteriosi di una cultura. È qualcosa che uso quando creo. Suonerà molto monotono ma quando comincio a scrivere qualcosa mi chiedo sempre: “Okay, quali opposizioni profonde operano in questo contesto?” Poi è tutta una questione di capire cosa fare con queste tensioni: le terremo in opposizione o cercheremo invece di mediarle, si scambieranno o muteranno? Penso che l’antropologia mi abbia resa molto attenta alle superfici e alle forme che lavorano nel retroscena di una cultura e che quando cominci a studiarla diventi cosciente del fatto che tutti gli esseri umani sono pari nella loro intelligenza. Hanno tutti una loro lingua e una loro mitologia, ugualmente complesse, non importa da dove vengano. Credo che questo coltivi un vero rispetto per le differenze tra te e gli altri; sai che ognuno avrà un modo diverso di vedere le cose e di risolvere i problemi. Ognuno ha un proprio poema dentro di sé: le persone possono essere molto poetiche nel modo in cui bramano, sono delusi da e amano qualcosa. Tutto questo non ha nulla a che fare con il livello di educazione. La morale della favola è che siamo tutti umani e condividiamo aspirazioni, desideri e bisogni simili.
Una lunga risposta!

 

LG: Ma onesta! È una boccata d’aria fresca quando i registi possono parlare così liberamente del modo in cui le loro occupazioni precedenti o i loro studi hanno influenzato la loro arte.

JC: Sì, ma non conosco molto l’antropologia! [ride] Certo, sono andata all’università, ho imparato qualcosina a riguardo, sono cresciuta, ma la mia principale fonte di educazione sono stata i libri, principalmente quelli scritti da donne. Quando ero giovane era solo nella letteratura che potevi trovare le voci femminili, certamente non nei film, perché c’erano pochissime registe donne o sceneggiatrici.

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Mi sono innamorata del cinema mentre ero a Londra, lì non conoscevo molte persone e mi sentivo molto sola.

LG: Dopo l’antropologia ti sei dedicata all’arte. La pittura ha influenzato il tuo modo di fare film?

JC: Quanto ho realizzato studiando arte, ed è stato fondamentale per me, è che il vedere è un linguaggio visivo in sé e che ero molto all’antica nella mia idea di cosa è l’arte. Pensavo che avrei semplicemente imitato quello che stavano facendo i miei artisti preferiti, non avevo capito che avrei dovuto trovare la mia voce. Dipingere mi ha insegnato ad essere molto attenta alle atmosfere.
Ricordo ancora quando mi trovavo oltremare per i miei studi e mi mancava terribilmente quella sensazione puramente fisica di trovarmi immersa nel bush e nei paesaggi neozelandesi; e quanto amassi quei luoghi. È per questo che The Piano (1993) è così speciale per me e perché volevo davvero fare qualcosa in quel bush. Mi chiama, in un certo senso. Per quanto riguarda il dipingere alla fine sono migliorata, ma non ero comunque molto brava. Durante il mio terzo anno di studi ho cominciato a girare corti perché mi ero innamorata dei film, ho imparato da autodidatta come filmare con gli strumenti messi a disposizione dalla scuola. Non era granché, ma io ci credevo fino in fondo, nel senso che ogni ora del giorno era dedicata a ciò che amavo. Era tutto un gioco. Mi sono innamorata del cinema mentre ero a Londra, lì non conoscevo molte persone e mi sentivo molto sola. Andavo a vedere film in continuazione, erano loro a tenermi compagnia.

The Piano The Piano

LG: Uno dei registi che più ti hanno influenzata (come tu stessa hai ammesso), David Lynch, ha descritto il processo creativo come una sorta di battuta di pesca: ci sono delle idee che nuotano in profondità dentro di te e tu devi avere la calma e la disciplina di trovarle e portarle a galla. Come funziona invece il tuo processo creativo?

JC: È una bellissima metafora. Ho sempre pensato al mio processo creativo come a una passeggiata in una foresta: è necessario essere pazienti e silenziosi affinché gli animali escano dai loro nascondigli e si rivelino. Le tue idee devono poter credere che rimarrai a lungo con loro prima che possano svelarsi nella loro interezza. Nessuno pensa un’idea, arriva sempre da qualche parte, di solito accade quando sei più rilassata, quando non stai pensando. È magico in un certo senso. C’è un esercizio che ho inventato per me stessa e che ormai condivido con i miei studenti: devi trascorrere quattro ore seduto alla tua scrivania, niente al di fuori di carta e penna – e del the, se lo desideri, o uno snack – niente computer e nessun tipo di distrazione. Scrivi e basta e non ti arrendi fino alla fine, perché è solitamente durante l’ultima mezz’ora che produci il meglio. Una volta stabilita quella relazione, ripeti il processo finché è necessario, finché non hai finito il tuo progetto.

 

LG: Insegnare a te stesso ad essere famigliare e a proprio agio con l’ignoto è importante.

JC: Sì, ed è qualcosa che ho davvero dovuto imparare, perché avevo poca pazienza per i misteri quando ero piccola. Non capivo la poesia, pensavo che dovesse essere come un’equazione, che potesse essere risolta. Mi ci è voluto molto tempo per non sentirmi minacciata e per realizzare che le poesie semplicemente funzionano in modo diverso. Ho imparato a lasciarle stare, anche se non capisci tutto subito puoi sempre tornarci in un secondo momento e qualcosa di nuovo potrebbe rivelarsi ai tuoi occhi. Keats parlava di capacità negativa, l’idea che devi costruire dentro di te la capacità di vivere nel misterio senza andare alla ricerca di ragioni e fatti. La qualità del tuo lavoro sarà così pari alla quantità di tempo che sei in grado di convivere con l’ignoto.

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Ma più invecchi più ti rendi conto che hai bisogno di prendere rischi; la cosa peggiore che puoi fare è non provarci del tutto.

LG: Quando e come pensi sia avvenuto questo cambiamento?

JC: Penso che sia una conseguenza del crescere. Diventi un po’ più discreta, vedi meno le cose in bianco e nero. Gli adolescenti sono noti per il loro essere molto dogmatici, ma penso che per me in particolare sia stato un periodo di crescita! [ride] Poi a un certo punto ho deciso di dedicarmici anima e corpo, di mettermi in gioco. Decisi che ci avrei messo il tutto e per tutto. Per un momento avevo troppa paura di farlo perché ero terrorizzata dal pensiero che il mio vero potenziale non sarebbe stato all’altezza delle mie aspettative. Ero un po’ intimidita, non volevo esplorare quel lato di me stessa e scoprire di non averne del tutto. Ma più invecchi più ti rendi conto che del potenziale le persone sopra i 30 se ne fanno poco. Hai bisogno di prendere rischi; la cosa peggiore che puoi fare è non provarci del tutto. Prendere quella decisione ha influenzato profondamente la mia vita. Da quel momento ho cominciato a sentirmi coraggiosa e disposta a fallire, e ho fallito, ho fallito molte volte, ma mi sono però sempre rialzata. Non è che non mi ferisse, lo faceva! [ride], ma penso che per fare film tu debba commettere errori, provare cose, imparare. L’essenziale è che il tuo entusiasmo sia più grande della tua paura, perché la paura distrugge tutto e quando hai entusiasmo non puoi immaginare di fallire, sei troppo felice di provare continuamente cose nuove.

 

LG: An Angel at My Table (1990) rappresenta quest’idea di resilienza e autorealizzazione. È stata per me una sorpresa scoprire che hai scelto questo film (e un altro) da presentare a Locarno. È caratterizzato da quei leitmotiv e quelle preoccupazioni che sarebbero poi riaffiorati nelle tue opere successive, ma forse non è altrettanto canonico.

JC: Beh il film fa colpo su una grande varietà di persone. È basato sulle autobiografie di Janet [Frame], dei libri notevoli, sulla vita, sull’infanzia e su una bambina artistica che non lo sembrava per nulla; tutto l’opposto, in effetti. Da giovane era una ragazzina paffuta e dai capelli rossi e crespi, che nascondeva una mente meravigliosa e delicata. Penso che le persone percepiscono quella vulnerabilità e si legano ad essa profondamente. Gli individui più sorprendenti hanno sempre dentro di loro quella persona dai capelli crespi e rossi, così insicura e incerta; io sicuramente ce l’ho.

An Angel at My Table ©Hibiscus Films. Image courtesy of Te Tumu Whakaata Taonga New Zealand Film Commission An Angel at My Table ©Hibiscus Films. Image courtesy of Te Tumu Whakaata Taonga New Zealand Film Commission

LG: Una delle cose più elettrizzanti di questo film è il modo in cui l’arte è rappresentata, come uno strumento di riconciliazione con sé stessi, un modo di trovare la pace dentro di sé e di riflesso nel mondo circostante. È una forza liberatrice.

JC: Beh, ho potuto incontrare Janet: l’ho dovuta convincere a concedermi i diritti sui suoi libri. Avevo circa 27 anni allora, non avevo ancora fatto un solo corto, ma amavo il libro, il primo delle sue autobiografie, l’unico pubblicato in quel momento. Quando l’ho vista per la prima volta ho pensato: questa persona è libera, così incredibilmente libera. Aveva costruito una casa suburbana all’apparenza molto convenzionale in una piccola città in Nuova Zelanda. La facciata era in doppio mattone, perché non sopportava i rumori, e l’erba del prato era lunga. Dentro aveva separato le camere con delle lenzuola, come in un reparto d’ospedale; in un angolo lavorava a una cosa e in un altro ad un'altra. Era un po’ come il suo parco giochi personale. Non aveva un salotto o una sala da pranzo, ma aveva un letto e ci siamo sedute ai due lati, come se stessimo visitando una persona malata…è stato così bello. Lei stessa è una grande cinefila; ricordo che dichiarò di amare L'anno scorso a Marienbad (L'Année dernière à Marienbad, 1961), che non avevo ancora visto ai tempi. Mi disse che amava i giovani coraggiosi e che avrebbe tenuto [il libro] per me, ma che avrei dovuto aspettare che gli altri fossero pubblicati nel caso in cui non mi fossero piaciuti. Poi avremmo cominciato da lì. Incredibile.

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Forse mi trovo più a mio agio ad esplorare il lavoro di qualcun altro perché quando decido di farlo vuol dire che me ne sono innamorata e quindi lo proteggo con passione.

LG: An Angel at My Table è anche il tuo primo adattamento di un’opera letteraria. Rimango sempre affascinato da come, anche quando racconti storie scritte da qualcun altro, i film conservino immancabilmente il tuo tocco. Come fai a dare spazio alla tua voce mentre guardi il mondo attraverso gli occhi di qualcun altro?

JC: È una buona domanda. Forse mi trovo più a mio agio ad esplorare il lavoro di qualcun altro perché quando decido di farlo vuol dire che me ne sono innamorata e quindi lo proteggo con passione. Mi sembra di capire quello che vogliono esprimere e come lo fanno. L’adattamento di Il potere del cane (The Power of the Dog, 2021) è stato un progetto interessante perché le differenze tra me e l’autore sono evidenti: lui era un vecchio gay americano, io una donna della Nuova Zelanda. Certo, i miei genitori avevano una fattoria ed io un cavallo ed ero in grado di cavalcare anche piuttosto bene…ma c’era pur sempre questa grande differenza tra di noi. Ho però amato il libro. In quel caso è stato fondamentale andare a fare ricerca sul luogo, in Montana, nel ranch dove l’autore viveva e dove la trama era ambientata. Ho anche incontrato il suo biografo, i suoi parenti e Annie Proulx, che ha scritto la postfazione del libro. Alla fine di quel viaggio di ricerca mi sembrava di aver imparato abbastanza, avevo reso omaggio all’autore e fatto il mio lavoro, ed è questo che conta, alla fine. Non è una questione di fortuna. Devi lavorare abbastanza da guadagnartelo.

 

LG: Il potere del cane è un Western, ma è anche uno dei rari film che sfida continuamente i modelli e cliché del genere. Devo ammettere che ogni volta che penso ad un film di genere penso anche a delle regole, delle caselle che devono essere spuntate…

JC: Magari dovrei pensarla un po’ più così [ride]…

 

LG: Davvero? Perché quando penso al tuo approccio provo l’esatto opposto. Tutti i tuoi film di genere irradiano un certo senso di sovversione, non rispettano le regole del gioco, le infrangono.

JC: Beh, il libro di Thomas Savage narra di una vita. Non rientra assolutamente in un genere, è un libro scritto da qualcuno che amava davvero vivere in un ranch e che era veramente gay e aveva uno zio che torturava una madre. Penso che tutti questi elementi diano al romanzo una specificità che si oppone all’idea di seguire le regole di un genere. Non so neanche se in generale mi piacciano i film di genere, l’unico che mi è davvero piaciuto è Alien (1979).

 

LG: Mi sembra giusto!

JC: Lo adoro! [ride] Non so se Un tranquillo weekend di paura (Deliverance, 1972) conti come film di genere ma amo anche quello.

 

LG: Vorrei parlare di come dirigi gli attori. Quando arrivi sul set hai degli obbiettivi precisi per loro o lasci dello spazio all’improvvisazione?

JC: Una volta ero molto più rigida, ora lavoro con attori a cui piace avere più libertà e hanno molto da contribuire. Per me la difficoltà risiede in questo scambio continuo tra me e loro. Ho dovuto imparare a godermi il momento, ma mi preparo sempre con largo anticipo così che posso lasciarmi coinvolgere da quanto accadrà quel giorno. Improvvisiamo molto chi sono i personaggi e come interagiscono con gli altri, che però non è la stessa cosa dell’improvvisare scene nel film. Sono per lo più esercizi, pensati per permettere loro di farsi un’idea di chi sia il personaggio in un ambiente rilassato, dove non c’è sforzo, impegno e non devono recitare. Quando cominciano a percepire il personaggio dentro di loro, è un momento davvero speciale.

 

LG: Ho letto alcune recensioni sui tuoi film ed è impressionante notare quanto spesso le persone ricorrano ad espressioni come “sensibilità femminile”. Vorrei capire come ti senti a riguardo: sono parole che hanno un senso per te? Lo chiedo perché mentre le tue opere non adottano (per fortuna) mai un punto di vista maschile, sembrano sempre trascendere i generi.

JC: Non sono una persona che ha una percezione precisa del genere, non su me stessa. Non mi preoccupo di essere una donna o un uomo o altro: il genere non è parte del modo in cui mi identifico nella mia essenza. Sono prima di tutto un’artista e questo implica avere responsabilità diverse; è molto più interessante. Lavoro con altri artisti e non importa quale sia il loro genere. Ovviamente rispetto tutti, capisco che per alcuni le questioni di genere siano molto importati e che nascere in un genere con il quale non di identifichi deve essere molto difficile. Mi piace trascorrere del tempo con persone, per esempio degli uomini, che non hanno paura di mostrare il loro lato femminile. Immagino che sia difficile essere un uomo talvolta, ma è quando ti senti davvero a tuo agio nell’esplorare il tuo lato femminile che possono nascere delle amicizie. Amo quando la gente lascia cadere ogni pretesa di potere e quello che rimane è pura esplorazione, è quello con cui mi sento a mio agio. Il mio essere donna certamente fa sì che il tutto sia un po’ diverso, particolarmente nelle sfere dell’amore e del romanticismo. Quest’idea di essere una pioniera della regia al femminile… penso che The Piano sia stato uno shock per le persone. Non lo è stato per me, o per i miei collaboratori, o per le persone artistiche che frequentavo, sai? Ma per le persone al di fuori di questa cerchia vedere la rappresentazione di un desiderio femminile che insiste su sé stesso è stato sorprendente. Ancora oggi ha un che di coraggioso.

 

LG: Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi della parola “pioniera”, che hai usato poco fa. Sei stata definita come tale fin dai tuoi primi progetti – e premi – ma quali sono i tuoi sentimenti a riguardo?

JC: Non ci ho mai fatto particolarmente caso. Mi dispiace molto per quegli artisti che percepiscono sulla loro pelle le aspettative delle persone, perché ti senti un po’ come se sei destinato a fallire. Ero a conoscenza di persone come Liliana Cavani e il suo Il portiere di notte (1974), un film davvero emozionante! Lo guardi ora ed è ancora rivoluzionario. Ho incontrato recentemente Liliana, ha novant’anni, praticamente immortale, e mantiene una chiarezza meravigliosa. Anche Lina Wertmüller, che un giorno venne in visita alla scuola in cui studiavo cinema e ci suggerì di prendere in prestito o rubare qualsiasi cosa di cui avessimo bisogno per finire i nostri progetti. Era talmente bella e dinamica. Francamente penso che al principio di tutto per me ci sia l’ispirazione. Avevo un’idea e ci lavoravo, non ho mai pensato a nient’altro. La gente mi chiama una pioniera, la prima persona che ha vinto quel premio o quell’altro, ma non è qualcosa sulla quale mi sono mai soffermata e non era un traguardo da raggiungere. Se lo fosse stato probabilmente ne sarei rimasta molto delusa. Ogni volta che le persone menzionano quei successi mi dico: “Oddio, è un sacco di roba!” Ma non esiste libertà in quel tipo di obbiettivo e do il mio meglio… beh, forse nell’oscurità! [ride] Mi piace pensare che sto lavorando nell’oscurità per poi sbucare fuori e dire: allora? Cosa ne pensi?