di Laurine Chiarini
Traduzione di Tessa Cattaneo
Ambientato negli aridi paesaggi delle pianure Argentine, Gaucho Gaucho (2024), è lo straordinario film del pittore Michael Dweck e del direttore della fotografia Gregory Kershaw. La pellicola, proiettata stasera in anteprima in Piazza Grande, è un viaggio immersivo nella comunità cowboy della regione di Salta, i gauchos. Mantenendo vive le loro antiche tradizioni malgrado l’avanzare della modernità, queste famiglie coltivano e sostengono il legame che hanno stretto secoli fa con l’ambiente, la terra e gli animali.
Nel 2020, The Truffle Hunters - Cacciatori di tartufi, la precedente collaborazione di Dweck e Kershaw, era destinata a Locarno. Quello però fu l’anno in cui entrarono in vigore le restrizioni relative al Covid nel mondo intero, riducendo considerevolmente il Festival, e così, purtroppo, il film non raggiunse mai le sponde del Lago Maggiore. Nonostante ciò, l’interesse del duo per il legame tra le comunità locali e le loro terre è rimasto invariato. La moglie di Dweck è Argentina, motivo per cui il pittore ha cominciato a visitare il paese a partire dai primi anni Novanta. Nel 2021, i due uomini cominciarono a fare ricerca sul campo, trascorrendo svariate settimane a contatto con diverse comunità gaucho nel nord dell’Argentina, vicino al confine con Cile e Bolivia. Il duo ha detto a Pardo: «Eravamo attratti dalla mitologia dei gaucho, che è simile a quella dei cowboy degli Stati Uniti. Abbiamo quindi cominciato a cercare le vere storie umane che sono diventate parte del mito. Ci siamo dovuti immergere nelle vite di queste persone». Lo stesso poster di Gaucho Gaucho riflette una fascinazione per il mito, con un design che rende omaggio ai primi film western di Hollywood.
Il bianco e nero rivela una miriade di dettagli impossibili da intravvedere in un mondo a colori.
Conosciuto altresì per la sua fotografia, Dweck si descrive come un “narratore visivo”. L’universo di Gaucho Gaucho è trasceso da un’infinità di sfumature d’argento, chiamate dagli stessi registi il beautiscope: «È una parola di nostra invenzione che descrive il nuovo set di sfumature che abbiamo utilizzato per restituire la bellezza sconfinata di quei luoghi». Guarda caso, la fotografia analogica o a rullini può anche essere chiamata argentica. Argentina e argentico hanno la stessa etimologia latina: argentum. Si riferisce ai cristalli di alogenuro d’argento alla base dei procedimenti di emulsione della pellicola usati per acquisire l’immagine. Filmare in bianco e nero oggi può essere una scelta commerciale rischiosa, ma Dweck e Kershaw non hanno avuto alcun dubbio. Epici ed aridi paesaggi a perdita d’occhio, case fatte di fango… e, quando le donne intente a cucinare gettano la farina in aria, se ne possono quasi intravedere i granelli. «Le texture erano magnifiche. Il bianco e nero rivela una miriade di dettagli impossibili da intravvedere in un mondo a colori».
Così come il bianco e nero, anche la musica è una componente formale che ci aiuta ancor più ad immergerci in questo mondo. Un brano dell’opera di Bizet I pescatori di perle crea un raffinato contrasto con i suoni della natura della scena seguente. I due uomini, entrambi appassionati di musica, hanno ascoltato rock argentino durante le prime ricerche dei luoghi dove filmare. Si ricordano di come, in modo naturale, «quando hanno cominciato il processo di editing, avevano già raccolto una grande playlist». Il gusto eclettico dei registi e il loro orecchio per i ricchi paesaggi sonori sono un complemento perfetto alle immagini del film, un modo per trasmettere sentimenti al di là delle semplici impressioni. Questo fa di Gaucho Gaucho, «un paesaggio onirico che invita gli spettatori a distaccarsi in modo impercettibile dalla realtà, e a concentrarsi sulle sensazioni che ogni singolo istante evoca piuttosto che sulla realtà concreta che rappresenta».
La scena iniziale offre un grande esempio di onnicomprensività, quando la sagoma che vediamo è perfettamente ferma e la sua forma esatta è indistinguibile. Alcuni fili d’erba ondeggiano nel vento, poi un cavallo, sbuffando, si sveglia, si sposta, e così fa anche il suo gaucho, che fino a poco prima stava dormendo in sella. «Girare questa scena è stato un po’ un miracolo», ricorda Kershaw, «sapevamo che le persone dormono sui loro cavalli, ed era un’idea molto affascinante. Questa scena coglie esattamente quello che stavamo cercando, un momento di magia che non puoi prevedere». Il battito cardiaco dell’uomo corrisponde quasi esattamente a quello del cavallo; questo è il momento in cui viene raggiunta una fiducia completa reciproca, quando l’uomo e l’animale diventano quasi un tutt’uno.
Quando gli abbiamo chiesto come erano state organizzate le giornate di ripresa Kershaw ci ha spiegato che «parte della bellezza del processo di girare un documentario è che sei continuamente sorpreso: cominci a filmare con un’idea di quello che potrebbe essere, che poi invece si trasforma in qualcosa di molto più bello». Quando la meraviglia è a portata di mano, la pazienza è la virtù più grande che un direttore della fotografia possa avere. Dweck e Kershaw hanno dedicato mesi a costruire delle relazioni con le persone che stavano filmando, per guadagnarsi la loro fiducia. «Volevamo immergere lo spettatore nella bellezza che ci circondava. Ma abbiamo cominciato dall’osservare da vicino le vite di queste persone, ad ascoltarle e a guardarle».
I due si sono uniti alle famiglie, sedendosi alle loro tavole per cena, il punto focale strategico di tutte le conversazioni. Non hanno mai sentito il bisogno di dirigere i loro soggetti. «Siamo un piccolo team di quattro persone. I nostri protagonisti hanno potuto vivere le loro vite, senza che il nostro processo di produzione li disturbasse», dice Dweck. Nella maggior parte delle scene girate all’interno le inquadrature sono statiche, consentendoci di avere un equipaggiamento tecnico ridotto al minimo. Quando gruppi di gauchos galoppano nella pampa sconfinata, sono seguiti dalla cinepresa, che riprende i loro movimenti senza soluzione di continuità, talvolta in slow-motion, in modo che lo spettatore possa ammirare la bellezza dell’uomo e dell’animale che lavorano insieme in perfetta armonia. In una sola occasione i movimenti diventano frenetici: una telecamera a bordo segue lo sgroppare furioso di un cavallo durante una jineteada gaucha, un rodeo dove i gauchos devono restare in groppa ad un cavallo non ancora domato quanto più a lungo possibile. Questo momento cruciale è l’unico in Gaucho Gaucho in cui l’uomo domina l’animale con violenza.
Stavamo filmando un mondo non solo fragile, ma che sta svanendo.
«Stavamo filmando un mondo che non solo era fragile, ma anche in via di estinzione», mi dice Dweck. In Argentina la siccità dovuta al surriscaldamento globale minaccia seriamente i metodi tradizionali dell'allevamento dei bovini. «Quello che abbiamo visto era molto diverso da ciò che ci aspettavamo. A differenza di altri luoghi, i nonni e i genitori vogliono che le tradizioni sopravvivano. Incoraggiano davvero i più giovani ad imparare come le cose sono fatte». Nel film compare anche la sola donna nell’universo maschile dell’allevamento bovino gaucho. Incoraggiata dal padre Tati, Guada, 17 anni, è determinata a diventare una gaucha. Solano mostra con entusiasmo al figlio di cinque anni i trucchi del mestiere. Il vecchio Lelo si lamenta con il guaritore del villaggio dicendo che vuole sentirsi giovane di nuovo. «Osservandolo siamo entrati nella sua mente», commenta Dweck. «Non esiste un altro mezzo che, come il cinema, possa celebrare in grande scala la bellezza e la passione di queste persone straordinarie e condividere la nostra visione di ciò che una vita pienamente realizzata può essere».