Regia: Steven Soderbergh
Di Christopher Small
Traduzione di Tessa Cattaneo
Christopher Small: Agli Academy Awards 2024 lo sceneggiatore Cord Jefferson, reduce della sua vittoria con American Fiction (2023), ha implorato Hollywood di prendere rischi, di girare, per esempio, 20 film da 10 milioni di dollari o, ancor meglio, 50 da 4 milioni invece di spendere 200 milioni per un singolo blockbuster. Penso che quest’affermazione sia un buon punto di partenza per parlare della tua carriera.
Stacey Sher: Sì, le sue parole sono di grande ispirazione, ma mi piacerebbe estendere la sfida anche ai registi. Sono i cineasti emergenti a rinnovare il business dopotutto – nuove voci, nuovi punti di vista – e sono loro a portare un nuovo pubblico. Pensiamo solo ad A24 e a come sia diventato un brand che conta. O a quanto fatto da Universal quest’anno. Ha vinto miglior film con una pellicola d’autore, Oppenheimer (2023), un film che inaspettatamente ha fatto quasi un miliardo di incassi, per non parlare di tutti gli altri da loro prodotti, l’uno sempre diverso dall’altro. Non sto cercando di sminuire i film di supereroi, ma per un certo periodo di tempo abbiamo visto registi passare da film indie a film di supereroi, e poi più nulla. Bisogna prendere rischi. Citando il grande William Goldman: nessuno sa niente. Chi avrebbe mai potuto predire lo scorso anno che un film da 100 milioni di dollari sul padre della bomba atomica o l’adattamento cinematografico della bambola Barbie (qualcosa che la gente cerca di fare da 25 anni) sarebbero diventati dei grandissimi successi? Povere creature! (2023) ha incassato 100 milioni di dollari. I registi devono essere coraggiosi nell’esprimere l’originalità delle loro voci.
CS: Sono curioso di sapere come tu, una produttrice, vivi con l’incertezza del prendere rischi. L’incertezza sembra essere il tuo modus operandi.
SS: Ascolta, nessuno vuole fare un film che non funzioni creativamente o non abbia successo finanziario. Sono cresciuta con i grandi registi degli anni Settanta – cineasti che credevano nell'emozionare più persone possibili, ma anche nel raccontare storie con significati profondi, perfino nei contesti di genere. Io e i miei partner, Michael Shamberg e Danny DeVito, per la nostra compagnia Jersey Films, abbiamo parlato con molti registi ma quelli con cui alla fine abbiamo deciso di collaborare – come Quentin Tarantino o Steven Soderbergh – erano interessati nel fare proprio questo: raccontare una storia unica con una voce originale e toccare il maggior numero di persone possibile.
Non sto cercando di sminuire i film di supereroi, ma per un certo periodo di tempo abbiamo visto registi passare da film indie a film di supereroi, e poi più nulla. Bisogna prendere rischi. Citando il grande William Goldman: nessuno sa niente.
CS: Sembra che, come produttrice, ti sia sempre trovata a vivere dei momenti di cambiamento dell’industria. Hai lavorato con molti registi ora iconici per i loro primi o secondi film, piccole pellicole che hanno completamente trasformato il territorio cinematografico. Mi piacerebbe sapere la tua opinione a riguardo, ese pensi che ci troviamo ora ad un punto di svolta.
SS: Da quando ho cominciato a lavorare nell’industria cinematografica la gente mi dice “Te lo sei persa. Ti sei persa i bei vecchi tempi di Hollywood”. E anche a causa di quelle parole mi è sempre sembrato di star rincorrendo questa fantomatica età dell’oro. Ma non stavo pensando ad alcun tipo di rivoluzione quando, da ragazzina, mi sono intrufolata a vedere i film vietati ai minori di Hal Ashby o Martin Scorsese. La mia carriera non ha davvero un senso compiuto a meno che tu non la guardi in retrospettiva; è sempre stata un pò sconclusionata.
Mi è sempre stato detto che sarebbe stato più facile fare commedie romantiche o film d’azione, ma non ho seguito questo consiglio. Pure Django Unchained (2012), il film indie con il più grande budget mai girato – anche quello non era certo un successo assicurato per le persone che ci stavano lavorando. C’era chi diceva che quel genere di film non avrebbe funzionato, chi invece che l’ambientazione era rischiosa e via dicendo. L’unica vera certezza era Quentin. Ma tutti noi ci abbiamo creduto e abbiamo creduto in ogni sua singola parte, sapevamo che sarebbe stato un grande successo. Un altro esempio è Contagion (2011): è stato popolare alla sua uscita, ma ha assunto un nuovo significato nel contesto della pandemia, quando è diventato il film più visto al mondo. Le vere recensioni per film come i miei sono scritte solo dopo 10, 15, o 20 anni dopo la loro uscita.
Più Greta Gerwig, Sofia Coppola, Kathryn Bigelow e Celine Song abbiamo, più bambine penseranno: “Quello è un lavoro che potrei fare”.
CS: Vorrei che tu ci parlassi dei tuoi primi mentori, come Debora Hill, con la quale hai lavorato per La leggenda del re pescatore (1991), di Terry Gilliam’s, e che cosa ha significato, per te, in quanto femminista, cominciare a lavorare in quel momento storico.
SS: Debora era eccezionale, mi manca ogni giorno. Mi ha insegnato che non esistono compiti troppo piccoli o troppo grandi per un produttore, come portare miele ed acqua calda a un attore per proteggerne la voce. Deve essere fatto. Facciamo tutti parte della stessa squadra sul set mentre cerchiamo di creare qualcosa di straordinario e di sopravvivere fino alla fine della giornata. È stata una lezione indispensabile e che ancora oggi porto con me. Il cruccio della mia carriera è che talvolta ho cercato di fare le cose prima del tempo. Per esempio, il concentrarmi su film con protagoniste donne è stata una battaglia. Ho dovuto tracciare il mio cammino, e magari è stato anche grazie all’esempio di Debora o della grande Polly Platt, o di Glae Anne Hurd o di Kathleen Kennedy che ho potuto farlo. A quei tempi non c’erano registe donne. Più Greta Gerwig, Sofia Coppola, Kathryn Bigelow e Celine Song abbiamo, più bambine penseranno: “Quello è un lavoro che potrei fare”.
CS: Una delle prime cose che hai fatto come produttrice è stata presentare la sceneggiatura di Pulp Fiction (1984) di Tarantino ai tuoi partner della Jersey Films, ancor prima che Le iene (1992) fosse presentato al Sundance.
SS: È divertente pensarci ora: avevo l’abitudine di leggere una colonna di Variety e di Hollywood Reporter nella quale erano riportati film nelle prime fasi di produzione. Era stata pensata affinché le persone potessero mandare il loro curriculum per lavorare sui set. Ho visto un film con un cast incredibile e un regista sconosciuto, ho assolutamente dovuto reperire e leggere la sceneggiatura – ed è così che ho conosciuto Le iene. C’erano Harvey Keitel e tante altre persone incredibili legate al progetto. Conoscevo Lawrence Bender, il produttore, ma non avevo ancora incontrato Quentin.
Alla fine una sera il coinquilino di Lawrence si è rivolto a me e mi ha detto: “Sto per rendere la tua notte indimenticabile: ti presento Quentin Tarantino”. Ci siamo conosciuti, amavamo gli stessi film, conoscevamo le stesse cose, avevamo sensibilità simili…e alla Jersey Films avevamo la flessibilità di poter sottoscrivere un contratto alla cieca per il secondo film di Quentin. Questo era tutto quello che sapevamo: tre storie che sono una sola storia; si intitola Pulp Fiction; è ambientato a L.A.. E con queste informazioni abbiamo firmato. Ciò che Danny [DeVito] ha potuto garantire, grazie alla sua influenza come star e regista, era il final cut. Quello era di grande attrattiva per un regista come Tarantino. Dopo Le iene a Cannes lui e Roger Avary si sono messi a lavorare intensamente alla sceneggiatura. La comunità di cineasti a quell’epoca era forte – quello un po’ si è perso.
Tutti ci dicevano: “Nessuna vorrà vedere il vostro film”, o ancora “Julia è la più grande star del mondo, non farà mai un film come questo”. Abbiamo continuato a lavorarci e, alla fine, beh, ha funzionato.
CS: Puoi parlare del momento in cui realizzi che un film come Pulp Fiction o Erin Brockovich (2000) sta prendendo forma e ti rendi conto che potresti avere tra le mani qualcosa di speciale, qualcosa di iconico?
SS: Beh, non ho mai pensato a quel modo, se lo fai sei in pericolo. Trovo una storia che amo e la seguo fino alla fine, quando si tratta di un film. Non importa quanto improbabile sia. Abbiamo incontrato la vera Erin Brockovich grazie a Carla, la moglie di Michael Shamberg. Per nostra fortuna quando il chiropratico le ha detto “Ho una paziente la cui storia potrebbe diventare un film incredibile”, non ha risposto “Sisi, certo”, ma ha incontrato Erin e le ha dato ascolto. Poi ha detto a Michael che ha sentito questa storia incredibile, che Julia Roberts un giorno l’avrebbe interpretata, che avrebbe vinto un Oscar e così via. Michael rispose “Non convincerai mai Julia Roberts ad interpretare un ruolo come quello”, ma Carla non si è arresa: me l’ha proposta e io me ne sono innamorata. Dicevamo sempre che è Rocky (1976) in minigonna.
Anche in quel caso siamo riusciti a firmare un contratto alla cieca e ad opzionare i diritti alla storia di Erin. A quei tempi, per come gli studios funzionavano allora, una compagnia come la nostra aveva fondi a sufficienza per dedicarsi a qualche progetto più rischioso. Abbiamo corso rischi con Pulp Fiction o Erin Brockovich, o più tardi con World Trade Center (2006), l’ultimo film a cui ho lavorato con Debra Hill, o con hits improbabili come Due sballati al college (2001) o La mia vita a Garden State (2004). Non sono state scelte ovvie quando ancora erano su carta, sono diventati grandi successi solo più tardi. Quando ho proposto Erin Brockovich a Steven Soderbergh la sua prima riposta è stata “È un’idea terribile per un film”, ma non ci siamo arrese e alla fine lo abbiamo convinto. Tutti ci dicevano: “Nessuna vorrà vedere il vostro film”, o ancora “Julia è la più grande star del mondo, non farà mai un film come questo”. Abbiamo continuato a lavorarci e, alla fine, beh, ha funzionato.
CS: Lo hai scelto come tuo tributo qui a Locarno, potresti parlarci di come Django Unchained è stato prodotto, soprattutto considerato il fatto che, come hai detto tu, è stata una gigantesca produzione indipendente?
SS: Certo. Ricordo di aver visitato un lotto di riprese per la sequenza finale di Candyland, una scena molto difficile da girare per Columbia, il nostro partner internazionale per il film. Quando è cominciata la distruzione di Candyland, con quelle enormi esplosioni, ero sorpresa che nessuno avesse accennato un “ooooh” o “aaaaah”. E poi ho realizzato che è perché sono abituati ad effetti speciali non realistici. Era stata una giornata talmente stressante sul set, c’erano stati dei lampi nei campi e non puoi assolutamente preparare degli esplosivi quando ci sono i lampi. C’erano due camere ed enormi gru per sostenere luci gigantesche. Quentin e Bob [Richardson, il cinematografo] erano in una fossa ricoperta di plexiglas. Ero preoccupata che fossero troppo vicini alle esplosioni, che le fiamme fossero troppo calde e che quindi le gru fossero state compromesse e che sarebbero crollate su di loro. Un incubo. Giro il lotto di riprese e quelli della Columbia dicono solo “Oh cool”. [ride]
Questo era tutto quello che sapevamo: tre storie che sono una sola storia; si intitola Pulp Fiction; è ambientato a L.A.. E con queste informazioni abbiamo firmato.
CS: Anche i festival hanno giocato un ruolo decisivo nel successo avuto da molti dei film da te prodotti. Cosa significa per te presentare un film ad un festival ed essere riconosciuta con un premio come il Raimondo Rezzonico Award?
SS: Come è stato detto agli Oscar: i film generano memorie e le memorie fanno la storia. Anche se Django è un western mostra l’orrore della storia americana in un modo che non puoi ignorare perché è coinvolgente. O Erin Brockovich, che ci ricorda che le grandi aziende non hanno sempre il nostro interesse a cuore. I festival di film sono trampolini di lancio per i registi. Girando il mondo con Le iene Quentin, per esempio, ha creato relazioni con il pubblico internazionale e con i giornalisti, i suoi primi sostenitori, cosa che ci ha aiutati per Pulp Fiction ed altri film. Il pubblico dei festival – che sia Locarno, Sundance, Cannes, Toronto o Berlino – è incredibilmente importante. Per quanto riguarda il premio invece mi torna in mente una storia di quando stavo creando Get Shorty (1995). La nostra costumista era molto legata a Neil Young, un giorno eravamo in giro a fare compere per il film quando mi disse “Devo passare da Neil per consegnarli il completo per il Lifetime Achievement Award che riceverà stasera”. Ero una grande fan ed impaziente di incontrarlo. Quando gli chiesi del premio, lui mi rispose, “Rimettimi al lavoro – non sono ancora pronto”.